"Figli di Marte": così Roma piegò i suoi nemici

Tito Livio scrisse che i romani potevano legittimamente definirsi "figli di Marte" per la padronanza dell'arte della guerra. Gastone Breccia ha indagato il rapporto tra l'Urbe e gli affari militari

"Figli di Marte": così Roma piegò i suoi nemici

La storia di Roma è una storia di progetti, uomini, idee. Storia dell’ambizione di una città, della sua classe dirigente, di una civiltà partita dal cuore profondo del Lazio per farsi egemone dell’Italia e del Bacino del Mediterraneo. Trasversale alle fasi di espansione, consolidamento e crisi di Roma è la storia delle sue armate. Che per circa un millennio hanno combattuto in nome della Res Publica, fondato le premesse per l’arte della guerra moderna, evoluto con pragmatismo tecniche e approcci, appreso dalle disfatte e dal sangue versato.

Pochi libri nella pubblicistica italiana permettono di capire il legame ombelicale che unisce la storia delle aquile legionarie romane alla storia dell’Urbe quanto I Figli di Marte – L’arte della guerra nell’Antica Roma (Mondadori, 2012), saggio dello storico militare Gastone Breccia. Breccia, nel saggio presta una grande attenzione al fattore umano nello sviluppo delle strategie e delle dinamiche militari. Ne I figli di Marte questa chiave di lettura assurge a filo conduttore.

Lo capiamo laddove Breccia descrive l’esercito di Cesare schierato in Gallia nel 57 a.C: “i legionari” – scrive – “non sono solo bene armati e bene addestrati, ma sono così esperti nelle cose della guerra (superioribus proeliis exercitati) da non perdere la testa nemmeno davanti a una crisi improvvisa; più ancora, sono uomini capaci di iniziativa individuale, benché sempre nel contesto di un’azione collettiva”. Una lettura attenta, che segnala l’originalità dello studio operato da Breccia nell’opera. L’autore è attento a leggere trasversalmente i fattori che hanno caratterizzato l’evoluzione degli eserciti romani: la caratteristica del soldato “medio”, la composizione degli eserciti, l’evoluzione degli armamenti, le codificazioni del pensiero strategico. Studiando il miles, comprendiamo il vir, l’uomo romano, nella sua evoluzione da cittadino in armi a soldato professionista sulla scia dell’espansione della Repubblica e dell’Impero e dell’ampliamento della cittadinanza romana a una platea crescente di provinciali.

Mai nella storia umana si è verificata una consustanziazione tale tra un popolo e le sue forze armate, tra il pensiero civile e gli ideali animanti le forze armate. Mai nell’antichità uno Stato ha saputo programmare una forza armata capace di essere al tempo stesso capace di conquistare, presidiare e trasformare materialmente con le opere di ingegneria e la colonizzazione i territori in cui avanzava. Il titolo stesso del libro prende il nome dalla celebre espressione di Tito Livio, che legittimamente affermava che Roma avrebbe potuto rivendicare come vera la sua discendenza dal Dio della Guerra.

I figli di Marte di Gastone Breccia

Le legioni sono state Roma, Roma è stata le sue legioni. Il legame è stato a doppio filo: per un abitante delle province l’espressione civis Romanus sum, fonte di orgoglio e della possibilità di accedere ai privilegi della civiltà dell’Urbe, si sovrapponeva con la consapevolezza della necessità di contribuire alle prospettive strategiche della Res Publica. Così come il legame privilegiato tra l’Impero e le terre conquistate veniva saldato dall’invio di truppe ausiliarie da parte delle province e dei clientes.

Non a caso, nota Breccia, nel giudizio della storia su Roma il ruolo della guerra è rimasto ai primi posti come canone interpretativo, “anche nella valutazione dei moderni che nei secoli hanno studiato e ammirato la gloria di Roma, tentando più o meno efficacemente di interpretare, attualizzare e imitare i suoi ordinamenti militari: da Machiavelli a Justus Lipsius, da Francesco I di Francia a Napoleone, dai teorici del XVIII secolo a Sir Basil Liddell Hart, che reputava Scipione l’Africano uno dei più grandi condottieri di ogni tema”. Machiavelli e prima di lui Tommaso d’Aquino, non a caso, elogiarono la “Bibbia” dei testi militari romani, l’Epitoma rei militaris scritta da Publio Vegezio nella prima metà del V secolo; Bonaparte, von Clausewitz e Federico il Grande lo considerarono un punto di riferimento della loro formazione strategica.

Interessante è anche la lezione che Breccia fa della capacità romana di resistere e sopravvivere alle diverse disfatte belliche in cui la Res Publica incorse durante la sua storia. Disfatte che, fatto interessante per una macchina bellica rodata come quella romana, erano riconducibili generalmente a due possibili “canovacci”: o l’accerchiamento delle unità (come a Canne contro Annibale) o la caduta delle legioni in un’imboscata (come a Teutoburgo nel 9 d.C.). Disfatte a cui si aggiungono casi atipici come la rotta di Crasso a Carre, del 53 a.C., in seguito all’inghiottimento delle legioni nel deserto e all’azione della cavalleria dei Parti, o la sconfitta di Adrianopoli, nel 378 d.C., che segnò l’inizio della fase finale dell’Impero. Che sarebbe, comunque, restato in piedi ancora per un secolo.

Da queste disfatte Roma imparò la capacità di reagire strategicamente e con un filo conduttore politico a cui quasi mai i governi dell’Urbe derogarono: mai negoziare dopo una sconfitta. Solo un popolo in grado di padroneggiare i segreti e i misteri dell’arte della guerra avrebbe potuto porre come regola aurea una scelta tanto impegnativa e coraggiosa. Ma la costanza dell’esercito romano stava proprio nella sua capacità di imparare dall’esperienza, sia che si trattasse del contatto con un territorio nuovo da plasmare attraverso opere ingegneristiche a uso e consumo delle armate sia che si trattasse di recuperare il morale e la volontà di riscossa dopo una sconfitta sanguinosa.

Roma fu figlia della guerra e “levatrice” della sua trasformazione in strutturata professione umana. Breccia aiuta a leggere l’opera dei “figli di Marte” da una prospettiva storica e a capire perché l’influenza della macchina militare romana sia rimasta così viva nei secoli.

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