Hepburn, quanta forza nella fragilità della grazia

A vent'anni dalla morte resta prototipo d'eleganza femminile. Merito suo o colpa di tutte le altre?

Hepburn, quanta forza nella fragilità della grazia

Di certo non è mai stata «appesa» come un trofeo nella cabina di guida di un tir, tra miss settembre e miss giugno. E anche la maggior parte degli altri uomini, quelli che per vivere non fanno i camionisti e oggi la rivalutano per opportunità di stile, mai hanno rivolto i loro primi pensieri concupiscenti al suo tubino nero di Givenchy. Troppo magra, troppo stilosa, troppo disinfettata da pensieri sporchi, con più occhi che tette.
Era una donna che piaceva soprattutto alle donne, Audrey (Hepburn, ovviamente). La perfetta incarnazione dell'idea che ogni donna vorrebbe poter avere di se stessa. Talmente informe da essere vestita da qualsiasi cosa, talmente algida da non essere stropicciata da nulla, sottile da spezzarsi ma agile, quasi ripieghevole e adatta a ogni occasione, sempre. Sciroccata escort di lusso con una passione per i brillanti di Tiffany, inadeguadata My Fair Lady (quella che, speranzosamente rivestita di tutto punto per il mondanissimo appuntamento all'ippodromo, urlava al cavallo che stava perdendo «Ma che, ti pesa il cul...?!») o sognante Sabrina. Perfetta, bellissima ma intrigante mai. Audrey, nei maschi, non ha mai scatenato neppure quel loro consueto, banale e un po' infantile istinto di voler spettinare la bambola perfetta, di volerla sporcare di fango, di volerle tirare le trecce. I maschi li ha sempre messi a posto a battiti di ciglia, immobilizzandoli. Tranne i suoi mariti, il collega Mel Ferrer e lo psichiatra italiano Andrea Dotti: fedifraghi entrambi, eternamente innamorati entrambi. Ebbe un figlio da ognuno di loro e avrebbe voluto averne altri cento da ognuno di loro. Ci provò pure, fra tragici aborti spontanei. Fu dopo quello che le capitò durante le riprese del film Gli inesorabili che Mel, nel disperato tentativo di consolarla, le regalò un cerbiatto che lei chiamò Ip. Era l'animale al quale venne più spesso paragonata nel corso della sua vita che iniziò il 4 maggio 1929 e si interruppe il 20 gennaio 1993.
Dopodomani saranno vent'anni che Audrey è morta e una biografia di Donald Spoto, Audrey Hepburn. L'incanto di una donna (Sperling&Kupfer), ne celebra il mito. Ne viene fuori una ceramica ripiena d'acciaio. Dalla nascita a Ixelles (Belgio), al padre «traditore» e nazista, dalla bocciatura come ballerina (colpa del suo metro e settanta e della malnutrizione infantile), dalla mamma nobile ma pragmatica ai mariti assenti e agli amanti presunti (tra i quali Albert Finney con il quale girò Due per la strada), dai due adorati figli Sean (Ferrer) e Luca (Dotti) a quelli che non è mai riuscita ad avere, fino a quelli che si è andata a prendere come ambasciatrice Unicef.
C'erano un sacco di cose sotto quei battiti di ciglia. Ostinazione, senso del dovere, umori variabili, gentilezze implacabili, chiusure ostinate. Un fermento composto, sotto alle perle. Un corpo più educato della testa. Esile, silenzioso, insidioso. L'ha tradita a 63 anni dopo aver finto di obbedirle docile. Tumore. Andò inutilmente a farsi visitare in America. Ma era tardi e i medici stabilirono che c'era qualcosa che se la stava mangiando da tempo, silenziosamente.

Di ritorno da quel viaggio senza speranza, stava talmente male che non fu il caso di prendere un aereo di linea. Allora il suo amico Givenchy (quello del tubino), le fece arrivare il suo jet e riempì la cabina che Audrey avrebbe occupato di petali di fiori. Il giorno del suo funerale, a Tolochenaz, c'erano tutti i suoi uomini.

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