Teju Cole: "L'Africa? Si capisce a Manhattan"

Nigeriano e newyorkese, scrittore e fotografo, Teju Cole vive a cavallo di due culture. Per farle dialogare

Teju Cole: "L'Africa? Si capisce a Manhattan"

nostro inviato a Mantova

È nato negli Stati Uniti, Michigan, e cresciuto in Nigeria. È approdato a New York a 17 anni, dove è esploso editorialmente a 35. E con i suoi romanzi, che hanno la forma del diario, il passo del saggio e la visione del fotografo, torna ogni volta narrativamente a Lagos. È l'itinerario di Teju Cole, uno degli anelli culturali di congiunzione fra l'Africa e Manhattan. Un lungo ponte della libertà: libertà di vivere con due patrie, di scrivere come se non ne avesse alcuna, di pensare in maniera critica sia l'una sia l'altra. Così libero, nel modo di vedere le cose (la sua New York, la sua Lagos, la sua famiglia nigeriana, i suoi amici americani, il modo di «fare letteratura») e di raccontarle con una scrittura che somiglia alle sue fotografie: studiatissime e così naturali. Fino a essere oggi, a 39 anni, una delle «nuove» grandi voci della letteratura americana, firma del New Yorker e star di twitter.

Scrittore, fotografo e storico dell'arte, Teju Cole ha scritto nel 2011 (è uscito in Italia l'anno scorso) il romanzo Città aperta , mentre ora presenta al festival di Mantova il nuovo Ogni giorno è per il ladro (Einaudi): un romanzo-taccuino in 27 capitoli e una ventina di fotografie in bianco e nero che è il diario del ritorno a casa di un giovane nigeriano dopo 15 anni a New York. La vera fiction novel è autobiografismo.

Doppio passaporto: due patrie e due città. Cosa c'è in te e nei tuoi libri dell'una e dell'altra?

«Ufficialmente ho due nazionalità, ma preferisco dire che conosco due città: New York è una cosa diversa dagli Stati Uniti, e Lagos non è tutta la Nigeria. In me ci sono prima di tutto queste due città, difficili da “vedere” veramente, e che io cerco di raccontare col mio lavoro. Comunque, la doppia eredità mi permette di lamentarmi della Nigeria quando sono a New York e di lamentarmi degli Stati Uniti quando sono a Lagos. E dal punto di vista letterario essere figlio di due Paesi, rispetto a un autore nato, cresciuto e invecchiato nel Sud degli States, per fare un esempio, mi obbliga invece ad avere una prospettiva sulle cose molto più complessa».

Ulteriormente complicata dall'uso parallelo che fai della scrittura e della fotografia. Che rapporto c'è tra parole e immagini?

«Vivo con la macchina fotografica in mano, la porto ovunque. Alla fotografia penso tutto il giorno, mentre alla “meccanica” della scrittura penso soltanto nel momento in cui scrivo. Ma alla fine nei miei libri sono presenti in modo uguale: raccontano in parallelo due stati d'animo e due storie “a parte”».

A New York cosa sta succedendo? È sempre la capitale del mondo?

«Di sicuro è la capitale delle arti. Tutti vengono a New York, perché offre i maggiori stimoli e le più grandi opportunità dal punto di vista creativo. Più di Parigi o Tokyo. In Città aperta ho cercato di evitare tutti i luoghi comuni su New York, tranne quello che canta Sinatra: “Se posso farlo qui, posso farlo ovunque...”. Perché è vero. Puoi essere il più grande scrittore indiano vivente, ma se non parlano di te a New York, non sei così importante. Puoi essere un regista italiano bravissimo, ma se il tuo film non lo fanno vedere a New York, c'è qualcosa che non va. Puoi esporre al Maxxi, ma se non arrivi al MoMa non puoi dire di essere davvero un artista».

Ma questo ve lo dite voi che siete artisti a New York...

«Sì, forse. Ma il discorso vale non solo per chi fa arte ma anche per chi la consuma . Se apri il giornale a New York scopri che in città quel giorno c'è tutto: un party con Renzo Piano, il nuovo film di Lars von Trier, una conferenza del più prestigioso storico di Oxford... Lì trovi tutto, senza doverti spostare».

Stai parlando troppo bene di New York...

«Scusa, hai ragione... La metropolitana è terribile».

E cosa sta succedendo in Nigeria? Tu hai scritto «Adoro i mostri immaginari, ma ho paura di quelli reali». I tagliagole di Boko Haram, l'organizzazione jihadista diffusa nel nord del Paese, è il mostro a cui pensavi?

«La letteratura si è chiesta spesso fino a che punto può spingersi per indagare il lato oscuro dell'Uomo. E me lo sono chiesto anch'io: la mia risposta è stato scrivere un lungo pezzo sul New Yorker per tentare di dire qualcosa sulle atrocità di Boko Haram, una delle cose più orrende che abbia mai visto. Al-Quaeda o Hezbollah sono organizzazioni terroristiche, con una loro ideologia. Boko Haram è peggio: una organizzazione contro la vita, e basta. Un mostro, appunto. E parlare di mostri reali è molto, molto più difficile che parlare di quelli immaginari».

Il fondamentalismo religioso è il mostro peggiore?

«Tra i peggiori. Ma temo che non saranno le guerre di religione o i conflitti etnici a distruggerci, bensì le diseguaglianze sociali. Ho paura del futuro. Le tensioni sono al limite e la situazione insostenibile. Nel 2030-2040 il mondo sarà molto diverso».

Cosa succederà?

«Che i ricchi uccideranno per difendere le loro cose, e i poveri per strappargliele».

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