Lee Miller, la donna nella vasca di Hitler che raccontò la guerra al mondo

Le due vite della bella newyorkese che fu reporter di guerra e amante di Picasso. La vita da romanzo di una delle donne più affascinanti del ventesimo secolo

Lee Miller, la donna nella vasca di Hitler che raccontò la guerra al mondo

Ai piedi di una vasca elegante, un paio di stivali da paracadutista piantonano un bagno apparentemente anonimo. Saltano all’occhio, nello scatto che immortala una donna intenta a insaponarsi la schiena. Ha lo sguardo vagamente perso. Rivolto all'altrove. È bella, come la statua di marmo che la osserva; e fa passare in secondo piano il ritratto di un Adolf Hitler nei giorni migliori. Quel bagno è il suo: è il bagno del suo appartamento segreto di Monaco - dove tutto è iniziato -, ma lui non lo vede da mesi. E non lo vedrà mai più. Si appena piantato una pallottola in testa del bunker sotto il Reichstag, mentre l'Armata rossa entra a Berlino.

È il 30 aprile del 1945. Nell'obiettivo di una di quelle vecchie macchinette fotografiche a pellicola che si portavano appresso in guerra uomini come Robert Capa, c'era Elizabeth "Lee" Miller: la donna che visse due volte.

Giovane, bionda, magnetica, misteriosa e caparbia, Elizabeth era nata a Poughkeepsie, sulle rive di quel lungo fiume Hudson, che nasce ad Albany e sfocia a New York. Figlia di una famiglia borghese, trova in suo padre inventore un affettuoso mentore, che, da grande appassionato di fotografia, la introduce quasi per gioco ai trucchi e ai segreti della camera oscura; rendendola, fin da bambina, una fotomodella nata per i suoi scatti amatoriali. Sembra la parentesi perfetta per un lungo idillio. Ma non lo sarà. La bellezza acerba di quella bambina troppo sveglia, finisce per attirare l'abominevole gesto di uno “zio” acquisito: e a soli 7 anni viene stuprata. Lasciandole nel profondo un trauma che non riuscirà mai a superare completamente - nemmeno con lo sforzo degli psicologi che nell'età dello sviluppo vedranno sbocciare una vera dea inquieta.

Fuggirà a New York, distante dai confini ben segnati della provincia e della piccola borghesia che la popola. Distante dai genitori con i quali il rapporto sembra essersi incrinato per la mancanza di senso di protezione. Nella Grande Mela degli anni ruggenti Lee Miller viene subito notata da un signore; un giorno, per caso, mentre passeggia su e giù per le strade di Manhattan. Un certo Condé Nast. Niente di meno dell’editore di due riviste alla ribalta: Vanity Fair e Vogue. E pare che oltre a salvarla da una vita banale, le abbia anche salvato la vita sul serio, nel senso letterale della parola: una macchina stava per investirla e lui la trattenne per un braccio - prima di renderla la flapper girl per eccellenza, da piazzare sulle copertine delle riviste di moda più famose del mondo.

Nel 1929, quando gli anni ruggenti sono terminati e le giornate a New York sono scandite dai suicidi degli agenti di borsa e dei magnati che hanno perso tutto, Lee Miller è già partita alla conquista di Parigi; dove conosce, si innamora e fa soprattutto innamorare perdutamente di lei il famoso fotografo Man Ray. Insieme - e forse più per merito di lei che di lui - elaboreranno una nuova tecnica nello sviluppo della fotografie: la solarizzazione.

Nella ville lumière all'epoca del suo massimo splendore, la giovane musa e ormai talentuosa fotografa Lee Miller si divide tra le feste; dove viene notata e richiesta come modella dai surrealisti più in voga, da Éluard, Cocteau, Magritte; e da Pablo Picasso, della quale sarà anche amante; e le commissioni di stiliste affermate come Cocò Chanel. Alle feste della Parigi bobo' conosce tanta persone importante, e anche un affascinante e ricco uomo d'affari egiziano, un certo Aziz Eloui Bey, con cui scapperà al Cairo e per il quale lascerà Ray - il secondo uomo che segnerà per sempre la sua vita: tradendola e rubandole il merito di alcuni scatti che appartenevano a lei, ma furono attribuiti a lui.

L'idillio con Aziz nell'Egitto nascosto, che ricorda le pagine del Paziente Inglese di Ondaatje e la vede scattare centinaia di fotografie enigmatiche quanto spettacolari - come "Portrait of Space" -, dura fino allo scoppio della guerra, o forse fino a quando non farà l'intima conoscenza, nel 1937, di un vero gentleman britannico: il pittore Roland Penrose. Per lui lascerà Il Cario dopo avere mantenuto in grande segreto una lunga relazione. E proprio mentre il führer della Germani ordina l'invasione della Polonia, decide di seguire il suo nuovo amore a Londra, invece di far ritorno negli Stati Uniti. È il 1939, la Gran Bretagna sta combattendo quella che verrà chiamata la "guerra fasulla", ma passerà meno di un anno prima che la giovane Elizabeth si trovi a fotografare i palazzi tramutati in rovine dai bombardieri tedeschi che ogni notte affollato il cielo di Londra. Tra quegli scatti, uno in particolare colpisce ancora profondamente chiunque scriva per mestiere: "Remington silent".

È tra i boati delle bombe come quella che centrerà in pieno la redazione dove lavora che decide di "andarla a vedere questa guerra", chiedendo a Vogue d’essere accreditata come fotoreporter. "Il mondo continua a fare quello che fa, che io lo fotografi o meno", sosteneva. "E la mia arte... è una questione di scegliere quando rilasciare l'otturatore. Non è allestire una scena e fare una foto. È trovarsi in un posto in un preciso momento e decidere che è un momento al quale forse nessun altro sta dando importanza". Quell'arte nel 1944 sarà espressa in prima linea, quando dopo lo sbarco in Normandia attraversa la Francia che passo dopo passo viene liberata dall'occupazione nazista. Da Cherbourg a St.Malò, fino a Parigi. Con la sua macchinetta Rolleiflex a tracolla, sempre, e l'amico (e ancora una volta suo amante) David Scherman, fotoreporter per Life. C'era lui dietro l'obiettivo quando Lee posa nuda nella vasca di Hitler, al numero 16 Prinzregentenplatz di Monaco. Si tratterranno in quell'appartamento inquietante per diversi giorni, e dormiranno anche in quelle lenzuola cifrate "A.H."; un'esperienza "macabra" racconterà lei, perché proprio in quei giorni la BBC riporta una notizia epocale: il führer è morto.

Ma il vero trauma, la stigmate che un'artista può ritrarre ma che non potrà mai spiegare né con immagini né con le parole, arriva quando la giovane fotoreporter entra nei campi di concentramento di Dachau e di Bergen-Belsen. I frutti della banalità del male la segneranno per sempre. Irreversibilmente. Dopo la guerra, dopo il matrimonio con Penrose, dopo aver avuto un figlio che scoprirà soltanto dopo la sua dipartita le mille sfaccettature di quella madre così inquieta, ci sarà la depressione. L'inconveniente clinico degli animi troppo sensibili e delle menti troppo ambiziose.

Riuscirà a scrivere, a raccontare a malapena ciò che ha visto sul fronte, mentre si abbandona all'alcol e si improvvisa "cuoca dadaista" nella fattoria di campagna che ha acquistato con Penrose. Il cibo ammazza il tempo. Disfà il corpo, sia nella sua assenza che nella sua opulenza. Del resto nulla si fa per caso: aveva iniziato a scattare fotografie per uscire da un limbo della sua vita; iniziò a scrivere ricette di cucina per tentare di uscire dall'inferno della guerra che non non voleva lasciarla andare. Alla lunga depressione post-bellica e al cliché dall’alcolismo, finisce per aggiungersi un cancro. Che alla fine la uccide, come è sgarbata abitudine di questo terribile male, un giorno d'estate del 1977; mentre era lì nel Sussex; dove ha cercato di vivere fino all’ultimo, con i suoi amici e suoi fantasmi: quello stupro; quello della sua bellezza svanita - che tutti gli uomini avevano voluto possedere a tutti i costi.

Quello della guerra, che aveva attraversato l’Europa, gli oceani, e il suo corpo di dea. Quello del dramma di essere stata donna del futuro in un passato che per quanto raggiante, la vide sempre essere vittima e carnefice di un romanzo straziante: la sua vita.

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