Cesare De Michelis, 70 anni, italianista emerito e presidente di Marsilio, è entrato in Università nel 1961, docente di Letteratura italiana a Padova. Lunedì ha tenuto la sua ultima lezione accademica: Ascesa e caduta della grande letteratura italiana.
Cos'è cambiato, in 50 anni, nelle nostre Università?
«Tutto. L'università è diventata una macchina burocratica, un esamificio, anzi un dottorificio... Non ci sono più le facoltà, ma itinerari di studio, percorsi chiamati professionalizzanti. Ma lo sono?».
Lo sono?
«L'Università un tempo era un luogo in cui s'incrociavano ricerca e insegnamento, e così i professori potevano testare i risultati del proprio lavoro di studiosi confrontandosi con gli studenti. Oggi l'Università ha ridotto le proprie ambizioni, i crediti sono diventati la misura del sapere, gli esami sono sempre più in quantità e sempre meno in qualità. L'università è diventata una comunità di massa. È un bene certo...».
Ma anche un male.
«Si è liceizzata. Si va lì, si studiano cento pagine di Storia della letteratura, cento di Filosofia e in questo modo si dovrebbe imparare un mestiere. Un'illusione».
Lei dice che l'Umanesimo è morto, e questo è un guaio
«Io dico che lo scientismo ha trionfato, e questo è il guaio. La letteratura non è uno strumento scientifico per interpretare la realtà, ma un luogo in cui la parola, cioè la massima espressione dell'Uomo, s'incontra con la memoria e la riflessione, da cui nasce il giudizio...».
Sta dicendo che il problema della felicità, l'uomo non lo risolve con la Scienza.
«Questo non significa denigrare la Scienza. Si ricordi le Invettive contro un medico di Petrarca. Dal medico ci vado, quando sono malato, ma non è lui, non è lo scienziato l'artefice del nostro futuro. L'Umanesimo aveva la pretesa di mettere assieme tutte le parti della nostra vita, ricondurre l'uomo all'unità. La Scienza, o almeno lo scientismo, lo fa a pezzi. Lo so che è importante smontare l'orologio per vedere come funziona, ma poi l'orologio deve dare l'ora giusta, e noi dare un senso al tempo. Abbiamo perso l'idea di unità e di tradizione».
Professore, mi sta diventando reazionario?
«Ma no, i reazionari sono i rivoluzionari che credono di cambiare il mondo. Io ho fiducia nel futuro, dico solo che credo più alla tradizione che all'innovazione. Oggi siamo come dopo un terremoto: non si ricostruisce la città da zero, ma recuperando quello che avevamo prima, salvando i pezzi: avremo un Paese nuovo, ma con la memoria dell'antico».
È in crisi anche la letteratura. Lei dice che col '900 ci si è convinti di non averne bisogno, e questa si è svilita.
«È stata l'avanguardia, dai futuristi al Gruppo 63, a dire che la letteratura parlava solo di sé, a farne un esercizio critico della letteratura stessa... Un meccanismo perverso che ha fatto sì che l'unica letteratura commerciale sia quella che intrattiene: il giallo, il rosa...».
Il nome della rosa...
«Eco è il trionfo italiano dell'intrattenimento. Un punto di svolta: nell'81 vinse lo Strega, e così vinse l'idea che la letteratura voleva essere quella cosa lì e nient'altro. Un libro intelligente e riuscito, certo. Ma fatto per piacere. E infatti l'ha comprato Hollywood. Mentre nessuno ha fatto un film dall'Ulisse di Joyce».
Diceva dei libri di genere...
«Non sono libri stupidi, ma libri che non sono destinati a durare. Gli autori ormai scrivono un romanzo ogni due anni. Manzoni scrisse un romanzo solo perché sapeva che lì dentro c'era tutto. Quello delle avanguardie è stato un tentativo di togliere credibilità alla letteratura della tradizione, di farla fuori».
Ci è riuscita?
«Sì, batti e ribatti è passata l'idea che la letteratura non sia un luogo speciale dove risiede il patrimonio della tradizione, ma un prodotto come tanti, come i fumetti o la musica. Una letteratura estetizzante... Ma la letteratura non è bella, la letteratura è vera e buona».
E ora ci troviamo impotenti ad affrontare la nuova crisi.
«Noi pensiamo che questa crisi sia un problema degli economisti, invece è un problema dei letterati. È come la peste del Trecento, da cui nacque l'Umanesimo. Ma quella peste non la vinsero i medici, la vinse il Decameron di Boccaccio. Fu la letteratura a guidare di nuovo il destino degli uomini. Oggi servirebbe la stessa cosa. Invece la letteratura è ridotta a fatto estetico o intrattenimento, bella ma effimera».
Eccezioni?
«Ci sono, ma manca un vero progetto. Leggo tanti autori interessanti, ma nessuno che mi faccia dire: va bene, si riparte da qui».
Neppure i libri allo Strega
«Vuole che le dica se mi piacciono o no? Sì, va bene. Ma non sono mica Nievo. Non sono chiavi universali per risolvere problemi. Se a Dante fai una domanda, ti risponde. Questi, mah...».
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