Maestro Ungaretti, «Leoncino» e il «rincoglionito» Eugenio Montale

La pubblicazione delle 300 lettere che tra il 1947 e il 1969 Giuseppe Ungaretti indirizzò a Leone Piccioni (L'allegria è il mio elemento, Mondadori, pagg. 366, euro 12) è per chiunque ami il poeta dell'Allegria una vera festa. Ungaretti ne viene fuori come a me, che non ho avuto la fortuna di incontrarlo, piace immaginarlo: «uomo di pena» ma anche di lotta, spirito ruggente, umorale e generoso, innocente e sarcastico. Un «grumo di sogni», un «nomade d'amore». Leone Piccioni, che ho invece avuto l'occasione di conoscere come esperto di letteratura e di whisky con la medesima grazia mondana, risulta qui il depositario delle sue confidenze più segrete, intelligente e duttile. Ungaretti lo chiama “Leoncino”. Lui darà sempre dei “Lei” al maestro.
Ungaretti è un «girovago», uno senza quiete, e da questo epistolario si vede. In bilico da giovane tra Egitto, Francia e Italia, si sposta continuamente in età matura: le sue lettere partono da tante città italiane, da Parigi, dal Brasile, dagli Usa. In Italia si sente attorniato da «seviziatori», che gli riservano «torture mortali» quando, alla caduta del fascismo, rischia di perdere la cattedra all'Università di Roma. Attilio Piccioni, esponente di primo piano della DC e padre di Leone, si prodigherà per salvarlo, e guadagnerà a sé e al figlio una riconoscenza sincera sino alla fine. Ma in Ungaretti la sensazione di essere perseguitato non si attenuerà più. Il sarcasmo si riversa sui colleghi e rivali: Montale è chiamato «Burchiello rincoglionito», Quasimodo è detto uno «scimmiotto». Ma rispetto a tante amarezze, un posto ancora più grande l'hanno i momenti di generosità umana. Leggiamo lettere di raccomandazione per modesti funzionari o per professori illustri come Anceschi e poeti come Zanzotto; una difesa di Allen Ginsberg arrestato per oscenità in Italia e una perorazione in favore di Histoire d'O di Pauline Réage, considerata ingiustamente opera pornografica.
Bruna Bianco, la giovane italo-brasiliana che gli fu vicina in quegli ultimi anni, lo chiama «Ungà», scrive: “Ungà” è un ragazzaccio». E lui si firma «il giovanissimo Ungà», lui, l'«ottantenne giovinetto» cui le studentesse di Harvard fanno le fusa. E che una notte con una bellissima ebrea fuma marijuana, anche se senza effetti. Non mancano illuminazioni sulla poesia.

E in una lettera a “Leoncino” sbuca anche un distico meraviglioso: quel Proverbio che è in realtà una sintesi suprema, nella sua costruzione a ossimoro, della vita di Ungaretti: «Si incomincia per cantare/ e si canta per finire».

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