da Trento
Fede, abilità, croce e delizia.
Di Fede Galizia – mirabile pittoressa, una delle poche donne ad aver lasciato un segno, tabula picta e infanzia a bottega, nella storia dell’arte tra Cinque e Seicento – non si conoscono neppure con esattezza le date (forse 1578 e 1630) e i luoghi (forse Trento e Milano) di nascita e di morte. Sappiamo che il padre, Nunzio, anch’egli artista, miniaturista e costumista, era sicuramente trentino. Sappiamo che entrambi si trasferirono alla ricerca di lavoro a Milano, città in cui lei è attestata per la prima volta nel 1587. E sappiamo, indice di una certa fama raggiunta, che il suo contemporaneo Gian Paolo Lomazzo ne parla con ammirazione, chiamandola già pittrice di talento...
E si chiama "Fede Galizia, mirabile pittoressa" la grande mostra – la prima antologica mai realizzata – che le dedica la «sua» Trento, al Castello del Buonconsiglio. Apertura il 3 luglio. Ma intanto siamo andati a curiosare, durante l’allestimento, accompagnati da Giovanni Agosti, curatore della mostra con Jacopo Stoppa. I tecnici di Arterìa, l’azienda leader del trasporto e allestimento di mostre d’arte, stanno aprendo le grandi casse con le opere: ecco la grande tela con il San Carlo in estasi davanti alla Croce con la reliquia del Sacro Chiodo, datata 1611, che proviene dalla chiesa di San Carlo alle Mortelle di Napoli; ecco la Madonna con il Bambino, detta «La Zingarella», che viene dall’Ambrosiana di Milano; ecco il ritratto di Pietro Martire Mascheroni - sicuramente un nostro avo... - figlio di un commerciante milanese, che fu il padrone di casa a Milano della pittrice, ricco e benefattore, che lasciò tutto, ritratto compreso, alla Ca’ Granda...
Intanto l’architetto-scenografa Alice De Bortoli dà gli ultimi tocchi alle grandi capsule che dentro ogni sala del percorso ricreano degli ambienti «a parte», isolando gruppi di opere, cinque o sei, a volte di più: sono stanze dentro la stanza, enormi separé con pesanti tendaggi di plastica argentata e specchiante, e dentro mini-pareti con i dipinti o teche e vetrine... «Sono quasi dei padiglioni da attrazione dei luna park: volevamo qualcosa che come la creatività femminile a quell’epoca suonasse eccezionale, fuori dalla norma. E soprattutto - spiega Agosti - non volevamo quadri appesi alle parenti delle sale. Qui siamo al Castello del Buonconsiglio, e le straordinarie decorazioni del Romanino o del Dossi farebbero a pugni con qualsiasi altra opera. Ecco perché abbiamo scelto delle strutture isolanti: per far sì che lo spettatore si concentri sulle opere esposte». E Pasquale Mari, un maestro, un direttore della fotografia che ha lavorato con tutti, da Mario Martone a Paolo Sorrentino, regola le luci dentro capsule e stanze... Quando l’allestimento fa la mostra.
Eccola, la mostra. Otto grandi sale, imponenti. Un percorso diviso in nove sezioni: da «Quando anche le donne si misero a dipingere», come avrebbe detto Anna Banti: nel pieno ’500 si affaccia alla ribalta della storia dell’arte un piccolo gruppo di artiste dalle identità finalmente definite, a volte monache, altre gentildonne, altre, come Fede Galizia, figlie d’arte; fino a «Come catturare la vita silente» dedicata alle nature morte, perché fra le opere note, la più antica di Fede Galizia risale al 1602, ed è la prima natura morta lombarda: poi arriverà lo shock della Canestra del Caravaggio... E oltre ottanta opere tra dipinti, disegni, incisioni; sue e di suoi contemporanei e contemporanee: Plautilla Nelli, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Barbara Longhi, e poi Giuseppe Arcimboldi - il quale farà debuttare i Galizia, padre e figlia, alla corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo, a Vienna - Bartholomaeus Spranger, Giovanni Ambrogio Figino, Jan Brueghel e Daniele Crespi... E se il percorso è chiaro, restano le domande poste dalla mostra: chi era Fede Galizia? Quali le ragioni del suo successo nell’epoca in cui visse? E quanto pesò il suo essere donna?
Risposte: Fede – nome programmatico nell’Europa della Controriforma – era una figlia d’arte con un padre che le garantì commesse importanti, e che ebbe una produzione ampia e diversificata. «Nel corso del ’900 – ricostruisce biografia e fortuna Giovanni Agosti – c’è stato un revival di Fede Galizia come pittrice di nature morte, e sia gli studi sia il collezionismo, soprattutto negli anni ’50 e ’60, ebbero un grande interesse per le natura morte, così sulle sue spalle si riversano un numero sproporzionato di quadri di genere. Ecco, la mostra fa pulizia su molte attribuzioni e soprattutto dimostra che Fede Galizia non fu una pittrice solo di nature morte: ma anche di ritratti, pale d’altare, incisioni...».
Sul motivo invece per cui piaceva tanto ai suoi contemporanei, e fu poi in fretta dimenticata, forse è perché, da una parte, le sue opere spiccavano per una straordinaria capacità esecutiva («Soprattutto nei dettagli: guardi gli abiti, i gioielli, c’è una mano squisitamente femminile, e nuova»), a cui noi aggiungeremmo l’iperrealismo, eppure siamo nel ’600, delle nespole, pere, uva e cavallette... E dall’altra, perché, a differenza di altre «pittoresse», Sofonisba o Artemisia Gentileschi, non ha alle spalle storie di stupri o di travestimenti maschili, che piacciono tanto oggi: «Per valutare il suo lavoro ci sono solo gli strumenti della storia dell’arte». I quali bastano e avanzano. Come dimostra la sala, che da sola vale la mostra, dedicata alle sue Giuditta e Oloferne. Nella capsula argentea sono racchiuse cinque differenti versioni dello stesso soggetto, una più splendente e diversa dall’altra, nei ricami, le decorazioni, la luce, i gioielli: quella della Galleria Borghese, quella del museo di Sarasota, in Florida (firmata e datata 1596), quella che proviene dalla Spagna, quella di Torino...
Si ritiene, ovviamente, che Giuditta sia l’autoritratto della pittrice, quando le artiste amavano presentarsi nelle vesti dell’eroina biblica per sottolineare la propria forza e autonomia rispetto al mondo maschile. Storie di donne, di arte e di capolavori.