Chissà, forse si tratta di un riflesso condizionato, oppure siamo davanti a un rituale apotropaico. Tutte le volte che si parla - o, come in questo caso, si scrive - della grandezza di Ezra Pound, scatta l'esorcismo di rito: «Poeta tra i più acuti del Novecento», ma «caduto nella trappola dell'ideologia più folle»; «autore di un capolavoro assoluto», ma improvvido seguace di «utopie estremistiche».
Quindi, dopo la excusatio non petita di prammatica, il discorso può svolgersi tranquillamente, senza lesinare complimenti e riconoscimenti all'autore dei Cantos , ma soprattutto senza rendersi conto dell'assurda contraddizione implicita nel considerare «uno dei più grandi poeti del XX secolo» un povero scemo, quando non, addirittura, uno «scellerato», che pagò la sua audacia con l'internamento nel manicomio criminale di St. Elizabeths (a proposito: si scrive così, senza apostrofo, e non come erroneamente riportato nel libro).
Tutto questo accade nelle prime pagine di un libro per molti versi eccellente: Ezra Pound, Dante (Marsilio, pagg. 206, euro 20), a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani, due studiosi che, una volta tanto, non sono anglisti ma filologi, cioè fanno parte della categoria, assieme a quella dei critici, peggio sopportata da Pound, che li accusava di concentrarsi sul dettaglio, perdendo la visuale d'insieme: «il critico, che in genere è un essere fastidioso e asfissiante, può giustificare la propria esistenza in uno o più modi minori e subordinati, come costruire cloache per convogliarvi il materiale di rifiuto che stagna attorno al vero lavoro, e che di continuo viene ammucchiato e fatto stagnare dai corpi accademici e dalle obese case editrici».
La fatica di vedersi riconoscere il «lavoro vero» è comprovata e ribadita dalla estenuante storia editoriale di questo Dante , che è finalmente pubblicato cinquant'anni dopo il primo tentativo di Vanni Scheiwiller di riunire in un volume gli scritti poundiani su Dante, già apparsi come capitoli di altri volumi come Lo spirito romanzo o sotto forma di articoli su riviste come New English Weekly e Broletto .
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, viste tali premesse, il risultato è un libro perfettamente compiuto, che rende omaggio a due grandi poeti, e ancor più grandi eretici, messi all'indice dai loro contemporanei, costretti all'esilio e seppelliti A lume spento , come recita l'emistichio dantesco che Pound scelse per intitolare la sua prima raccolta di poesie, stampata a proprie spese a Venezia, nel 1908. Il sommo poeta è una guida e un riferimento costante per il giovane americano sin da quando, appena ventenne, scriveva alla madre che «preferiva studiare, invece degli insignificanti contemporanei, Dante e i Profeti biblici», fino ai radiodiscorsi della Seconda guerra mondiale, infarciti di citazioni dantesche per dimostrare che la sua guerra era la stessa combattuta dall'esiliato fiorentino, contro gli speculatori e i falsificatori di moneta e del linguaggio «perché - insisteva - certi fatti, guerra o no, gli americani li devono sapere».
Pound, prima di essere abbandonato dall'autorità giudiziaria nel limbo di una presunta pazzia a causa delle sue idee economiche, era stato messo all'indice dalla cultura accademica per la sua produzione critica. Sotto la ghigliottina dell'intellighenzia universitaria erano cadute sia le sue rielaborazioni di Sesto Properzio, scambiate per traduzioni, che la sua edizione delle Rime di Cavalcanti, accusata di superficialità da critici che, oggi, come ricordano i curatori di questo Dante, appaiono in tutta la loro sventata inadeguatezza di fronte alle «conquiste svettanti e alle proposte avventurose» del Poeta.
L'ammirazione per il poema dantesco, che raggiunge l'apice nei due canti composti da Pound in italiano, qui ingiustamente trascurati, si tramuterà nel tentativo, per molti versi riuscito, di innervare la potenza dantesca nelle avanguardie del primo Novecento, unite dal rifiuto del moralismo lezioso, superficiale e ipocrita dell'età vittoriana, ma senza cadere nella provocazione fine a se stessa.
La precisione del linguaggio di Dante unita alla sua carica evocativa ne fanno un modello e un alleato prezioso per rieducare i lettori ai sapori veri, guastati da tanta cattiva letteratura «messa in commercio da una banda di malviventi, aiutati da editori passivi e abulici», che stampano poesia «resa innocua per il clero infame e la città di Londra». Dante è come «una pallottola nel polmone di un usuraio», una poesia che «minaccia questo ordine di cose, ed è un inesauribile antidoto contro l'accettazione passiva di leggi infamanti formulate per la tutela del falso. Gli agenti della banca d'Inghilterra non hanno niente da sperare in un rinnovato interesse per Dante».
La passione dantesca di Pound, però, non è solo legata ai suoi contenuti ideali, ma esamina ed evidenzia con cura il suono, il significato e l'aspetto delle parole usate dai poeti medievali italiani, suggerimenti utili «a evitare quella sorta di dolciastro mormorio quasi universalmente tollerato in inglese». Purificare il linguaggio e liberarlo dalle scorie per riportarlo alla precisione limpida e assoluta di Dante e Cavalcanti; rettificare le parole per salvare il mondo: un progetto ambizioso, che per Pound fu anche un destino di vita fondato sul rigore, sulla fedeltà e soprattutto sulla sincerità.
A Dante, Pound deve l'idea e il titolo della sua grande opera, i Cantos , che è un viaggio nell'Inferno e nel Purgatorio nel Ventesimo secolo, privato di un Paradiso, deturpato e violato dall'avidità e dalla sete di profitto a tutti i costi.
Il suo poema, come scrive in italiano nel 1944, ha molti punti in comune con quello di Dante: «Per quaranta anni mi sono disciplinatamente istruito per scrivere un poema epico che comincia in the dark forest , attraversa il Purgatorio degli errori umani, e si conclude nella luce».Un anno dopo calò il tramonto, e la luce si affievolì fino quasi a spegnersi.
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