Pubblicare i classici è da don Chisciotte

Una nuova edizione del romanzo di Cervantes fa capire la complessità (e la follia) del rendere per tutti la grande cultura

Don Chisciotte visto da Dariusch
Don Chisciotte visto da Dariusch

Tengo tra le cose più preziose che ho un'edizioncina Mondadori del Don Chisciotte in due volumi, rilegata in tela verde, la cui prima edizione risale al 1934, mentre la mia, che è la sesta, data 1969. La acquistai all'inizio degli anni Ottanta, studente universitario fuori sede, a Milano, nella benemerita e mai abbastanza rimpianta libreria Remainder in Galleria Vittorio Emanuele.
I volumetti recano sul retro di copertina un'immagine di Miguel de Cervantes. Segue una velina a separare l'immagine dal frontespizio, e io ogni volta che la guardo, mi domando come un'edizione così delicata possa essersi così ben conservata - l'ottima carta bianchissima, i caratteri neri come l'inferno - a tutte le vessazioni alle quali io la sottoposi, dai diversi traslochi alla (udite udite!) lettura!
L'amore che ci lega a un'opera letteraria deve sempre qualcosa, credo, all'aspetto fisico del libro sul quale ci accade di leggerla. E il mio amore per il Cavaliere dalla Triste Figura dipende grandemente dalla bellezza di quell'edizione, il cui traduttore, Roberto Carlesi, non suscitò mai in me nessun sospetto di cialtroneria: non che io sapessi confrontarmi con l'infida lingua spagnola, ma la serietà, la completezza di quei due libretti attestavano da soli la qualità del lavoro di tutti coloro che avevano preso parte all'impresa.
Il lungo preambolo (che comprenderebbe, volendo, anche la storia di altre edizioni del Chisciotte, da me possedute e poi regalate o rivendute) serve a ricordare che di un classico si può parlare anche a prescindere dai suoi contenuti letterari, perché la storia dei libri che l'hanno ospitato (odio il verbo «supportare») costituisce in tutti i casi già di per sé un racconto ricchissimo e significativo.
Oggi una nuova edizione del Don Chisciotte entra stabilmente nella mia libreria. Non lo rivenderò, non lo regalerò. Ma nemmeno lo leggerò. Al massimo lo consulterò. Ma la storia che racconta è degna di grande considerazione perché ci parla della difficoltà odierna a realizzare opere editoriali importanti.
Don Chisciotte della Mancia viene dunque ripubblicato da Bompiani con un'impresa a dir poco titanica. Si tratta di un possente volume unico di circa duemiladuecento pagine più centoventitré di introduzioni, che Bompiani edita nei «Classici della Letteratura Europea» diretti da Nuccio Ordine. Il testo originale, pubblicato a fronte, è stato stabilito à nouveau dal filologo Francisco Rico dopo un enorme lavoro nella selva della variantistica cervantiana, mentre la traduzione è stata affidata ad Angelo Valastro Canale, che ha operato su un registro difficile ma proficuo, che definirei antichista: un complesso contrappunto teso a trasmettere il timbro della lingua originale in un italiano pseudo-cinque/secentesco ma, ovviamente, non ricalcato sulla prosa cinque/secentesca italiana delle prime traduzioni.
Non potendo, in altre parole, «attualizzare» Cervantes ma nemmeno calarlo in un'impossibile corrispondenza italiana dell'epoca, il traduttore ha dovuto in qualche modo inventare la lingua adatta, un po' come Eduardo «inventò» un napoletanese che non esisteva ma che era il solo modo possibile per traghettare la sua poesia in tutto il territorio italiano. Tuttavia, tra il possente apparato di note apposte alla fine del testo, l'originale a fronte e la preziosa traduzione, cui va aggiunto il prezzo bassissimo per un'opera come questa (solo 30 euro è da medaglia al valore), il libro risulta alla fine sommamente degno di essere acquistato ma anche alquanto difficile da leggere.
Le ragioni sono tante. Per esempio la carta sottilissima, di ottima qualità ma anche giallina, dove gli occhi si stancano un po', perdendosi in un corpo tipografico piccolo distribuito su una pagina dalla superficie consistente. La fettuccia-segnalibro di stoffa bianca è graziosa, ma è una soltanto: chiuso il libro, ce ne vorrebbero almeno due, una per tenere il segno, l'altra infilata tra le note corrispondenti. Inoltre, la fettuccia non ce la fa a sollevare, per chi si trova all'inizio del libro, le duemila pagine che lo separano dalle note.
Ma, soprattutto, un libro fatto per essere letto e non soltanto consultato deve mostrarsi complice del lettore. Chi apre il Don Chisciotte per leggerlo non deve trovare, dopo 123 pagine tra introduzioni e apparato illustrativo, tutta una serie di preliminari nei quali finisce per perdersi, come Hansel e Gretel nel bosco, il folgorante Prologo: «Lettore beato, che non hai nulla da fare» (tr. Carlesi), o anche «Sfaccendato lettore» (tr. Canale), cui farà eco duecentocinquant'anni dopo Baudelaire con il suo immortale hypocrite lecteur. Queste cose devono essere messe subito in rilievo, perché appartengono a un'intenzione dell'Autore che non coincide con quella della sua corrispondenza o delle sue dediche, in quanto appartiene già, in tutto e per tutto, al Testo.


Questo Don Chisciotte è un'impagabile opera di consultazione, simile a un dizionario o a un atlante geografico, e come tale - visto che contiene un capolavoro in una nuovissima veste, ed è perciò un vanto per noi e per la nostra editoria - incompleta. Ci vuole, quanto prima, un'edizione economica della stessa traduzione, senza note o quasi, senza testo a fronte e con il Prologo in testa. Solo allora il grande lavoro iniziato si potrà dire concluso.

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