"La Shoah in me. Memorie di un combattente del ghetto di Varsavia"

La testimonianza, inedita in Italia, dell'ultimo combattente ancora in vita del ghetto di Varsavia. Simcha Rotem ha vissuto l'Olocausto in prima persona non appena ventenne. E lo racconta in un libro

"La Shoah in me. Memorie di un combattente del ghetto di Varsavia"

Immagini impossibili da dimenticare, dettagli che sfuggono alla memoria con la stessa forza con cui sono impressi sulla pelle, c’è molto di non detto e tanto di raccontato in La Shoah in me. Memorie di un combattente nel ghetto di Varsavia. Gli eventi sullo sfondo sono tra i più noti e allo stesso tempo tragici che la nostra memoria storica possa ricordare, l’aggressione, la persecuzione, lo sterminio, in una sola parola: l’Olocausto. Il libro, arricchito dalla toccante introduzione di Gad Lerner, si presenta come una sorta di diario degli eventi che, accaduti a Varsavia tra l’aprile e il maggio del 1943, hanno portato all’insurrezione del ghetto.

Simcha Rotem tutto questo lo ha vissuto in prima persona non appena ventenne, e lo racconta solo quarant’anni dopo mantenendo intatta la freschezza della sua gioventù. Nelle sue parole si legge il dolore ma anche l’incredulità per un vissuto del tutto incomprensibile, per i cumuli di macerie a ogni angolo, per le cataste di cadaveri nelle strade, per i luoghi non più riconoscibili anche solo da un giorno all’altro, per l’intollerabile abituarsi alla morte e al distacco dai propri affetti. Tra i ranghi della Żob, l’Organizzazione ebraica di combattimento, Simcha Rotem ̶ nome di battaglia Kazik ̶ ha sperimentato la militanza clandestina, l’uso delle armi e la pianificazione delle azioni di salvataggio. Tutto questo si legge tra le righe, senza clamore ma con una solidità che emoziona. Gli attimi di disperazione si alternano con quelli dell’azione: Kazik cerca nascondigli per gli altri combattenti e trova vie di fuga sotterranee, fino ad arrivare poi, con un coraggio dettato forse in parte proprio dall’incoscienza, ad affrontare a viso aperto l’aggressore nazista.

Quella che emerge è senza alcun dubbio una figura eroica, un uomo in cui il rimpianto per le persone che ha dovuto lasciare al proprio destino è forse più forte dell’orgoglio per la liberazione di quei compagni che, se non fossero usciti dal ghetto, sarebbero stati condannati a morte certa. La sua resistenza viene trascritta come testimonianza, non c’è stato un intento letterario nel metterla su carta quanto più la consapevolezza che fosse un dovere far sì che non andasse persa. È l’autore stesso a raccontare che una prima stesura gli era stata commissionata quando ancora militava nella Żob, ma allora i suoi intenti erano rivolti all’azione e il progetto non si concretizzò. Anni dopo furono i suoi compagni del kibbutz Lohamei HaGeta’ot in Israele a esortarlo affinché portasse a termine l’opera.

Nonostante la natura schiva e riservata che lo contraddistingue, Simcha si convinse a dettare le proprie memorie a un membro del kibbutz, malgrado sapesse bene quanto sarebbe stato difficile riportare alla mente episodi tanto dolorosi e ricordi tanto strazianti. La grandezza del testo riesce ad andare oltre ogni reticenza, la sensibilità che sprigiona coinvolge senza remore e quello che si coglie leggendo il racconto è l’energia vitale che prende forza dall’oppressione, sono i sentimenti che continuano a esistere negli uomini anche quando questi sembrano destinati a non poter fare altro che cercare di sopravvivere.

Va dato merito alla curatrice, Anna Rolli, e alla Sandro Teti Editore per aver colmato un'importante lacuna, rendendo così disponibile al lettore italiano questa preziosissima testimonianza che sarà in libreria entro il mese di settembre.

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