Dopo una lunga e sofferta trattativa tra il governo Londra e quello di Roma, furono quattro bastimenti di oltre ventimila tonnellate di stazza ciascuno, dipinti interamente di bianco con grandi croci rosse sulle murate - la Saturnia, la Vulcania, la Caio Duilio e la Giulio Cesare - a riportare in patria decine di migliaia di uomini anziani, donne a bambini italiani che erano rimasti prigionieri in quella che un tempo era nota come AOI, l’Africa Orientale Italiana: possedimenti coloniali che caddero pezzo dopo pezzo in mano ai britannici pronti ad internare militari e civili nei campi di internamento sparsi sul continente.
Una pagina della nostra storia poco conosciuta. Un'odissea lunga e pericolosa che prevedeva la circumnavigazione del "continente nero” - dato che non venne concesso dagli inglesi di attraversare il canale di Suez. Iniziata nel 1942, quando le "Navi bianche" salparono per la prima volta dai porti di Massaua e Berbera al suono della marcia reale, e terminata solo nell’agosto del 1943 con l'ultimo attracco nel porto semidistrutto di Taranto. Questo mentre nelle acque del Mediterraneo incombeva la guerra; i sommergibili, gli aerosiluranti, e gli incrociatori delle due fazione si davano battaglia; e i britannici minacciavano di abbordare le navi bianche alla minima comunicazione di carattere “bellico” con la Supermarina italiana. Sarebbe stato considerato come un atto di ostile che avrebbe privato del lasciapassare neutrale il convoglio.
Cinquanta giorni in mare. Per coprire oltre 10mila miglia dalla costa orientale fino a Capo di Buona Speranza, e poi su, fino a Gibilterra. Ammassati, logorati nel morale per la separazione dai cari e per il futuro incerto, spossati dal caldo africano, dalle privazioni e dai malanni: fu' questo il riassunto dei diari di bordo compilati in quattro viaggi dai comandanti e dai medici imbarcati, che raccontarono quella prima “grande missione umanitaria” che permise i rimpatriati da Etiopia, Eritrea e Somalia e mise definitivamente la parola fine al colonialismo italico.
Quello era solo il "secondo" passo verso una madrepatria distante, diversa, che molti non avevano nemmeno mai visto: una madrepatria in larga parte affamata e affaticata, ridotta allo stremo, che non sapeva come e dove accogliere altri sfollati. I "rifugiati nazionali", così vennero chiamati, furono: "costretti ad abbandonare case e averi, concentrati dai britannici in campi provvisori e da lì inviati a Berbera (in Somalia, o a Massaua in Eritrea, ndr) direttamente per l’imbarco", scriveva nel suo saggio lo storico Emanuele Ertola. "Affaticati e storditi dopo un lungo viaggio attraverso l’Etiopia in treno e camionetta, i rimpatrianti dovevano quindi sopportare la lunga attesa per salire a bordo”.
A bordo delle navi bianche, vecchi transatlantici riconvertiti in navi ospedale, la situazione non era rinfrancante: "Ricordo i bambini più piccoli che morivano per infezione diarroica; ricordo l’epidemia di tosse convulsa che imperversava tra i bambini più grandi. Ricordo la madre disperata che aveva assistito alla fine del suo piccolo; ricordo che le donne in stato di gravidanza erano terrorizzate e ricordo che non c’erano più letti disponibili nell’infermeria strapiena", raccontava Maria Gabriella Ripa di Meana a Massimo Zamorani, storico inviato del Giornale che scrisse il libro Dalle Navi Bianche alla Linea Gotica.
Secondo le ricerche effettuare dagli storici sarebbero stati almeno 40.000 i rifugiati che si ritrovarono in una patria spezzata a metà dalla guerra - che aveva visto la caduta di Mussolini, la firma dell'armistizio del 8 settembre e la nascita della Repubblica fascista di Salò.
Alcuni poterono contare sul sostegno di lontani parenti; altri sull'accoglienza di quegli italiani "brava gente” che erano disposti ad aiutare i “compatrioti”; ma molti, rimasti senza niente e senza nessuno, vennero lasciati a loro stessi, unendosi ai già numerosi sfollati che avevano perso tutto a causa della guerra. Si rifugiarono nelle baraccopoli, ai margini dei centri urbani, e dopo la guerra in luoghi di raccolta per sfollati e orfani come l'ex campo di concentramento di Fossoli. Vennero descritti a lungo tempo come esseri spezzati: “apatici, imbelli, interessati solo ai sussidi, portatori di un passato dubbio se non oscuro”, dirà Pamela Ballinger nel suo recente saggio. Uno stato dell’esistenza che si attenuerà solo con il miracolo economico del dopoguerra. Per alcuni. Per altri una ferita che non si sarebbe mai rimarginata.
Tra quei rifugiati c’erano volti noti come Hugo Pratt, all’epoca appena adolescente che dopo essere stato internato nel campo di Dire Daua, aver perso il padre ed essersi arruolato nella Xª Mas, racconterà l’Africa nei suoi leggendari fumetti. O donne normali, come Anna Maria, che pubblicherà un diario dal titolo Africa come amore, e dirà:“ ..guardo gli ultimi lembi della terra d'Africa, che ormai lascio per sempre. Laggiù, nell'interno lascio Carlo, che forse non sa ancora che io sto tornando in Italia. Come l'avevo immaginato diverso questo ritorno. Quante vicende, quanto soffrire: ripartivo come un emigrante, sola. Ma eravamo vivi.
Molte partivano lasciando in Africa una tomba e quindi a me non restava che ringraziare Dio per la sua benevolenza”. Lasciando anche a noi che leggiamo dopo così tanto tempo da quella commozione, uno strano senso di malinconia e profondo mal d’Africa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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