Alto e magro com'era, quasi allampanato e con gli occhiali a stanghetta e lo sguardo ironico, Piero Gobetti (1901-1926), intento a concionare davanti a un gruppo di studenti nel cortile dell'Università di Torino prendendo in giro qualche illustre professore, avrebbe potuto essere scambiato come ha osservato Paolo Vita-Finzi che lo conobbe e frequentò in quegli anni per «un seminarista» se non fosse stato «per il ciuffo di capelli biondi e un po' arruffati» che gli cadeva sulla fronte. C'era, in lui, un concentrato di energia e di curiosità intellettuale che lo spingeva, quasi naturalmente, a essere un organizzatore culturale e un protagonista della vita intellettuale del suo tempo.
Solo un giovane come lui, così dotato di intelligenza e di intraprendenza, avrebbe potuto, come in realtà riuscì a fare, creare attorno a sé un vivacissimo e autorevole cenacolo intellettuale e a fondare riviste come Energie Nove, La Rivoluzione Liberale e Il Baretti, destinate tutte a lasciare, nel bene e nel male, un segno. E, probabilmente, solo uno come lui sarebbe riuscito a far proprie, in un sincretismo unico e impensabile, le suggestioni e gli stimoli culturali più diversi e a mettere insieme, per esempio, liberalismo e gramscianesimo. È però indiscutibile che alla base della speculazione filosofico-politica di Gobetti vi fossero alcuni punti fermi del pensiero risorgimentale e post-risorgimentale, dalla tradizione illuministica piemontese alle pulsioni filosofico-rivoluzionarie di un Carlo Cattaneo e di un Giuseppe Ferrari, dalla religiosità nazionale di un Giuseppe Mazzini al radicalismo storiografico e antigiolittiano di un Gaetano Salvemini.
Non è un caso che già nell'immediato secondo dopoguerra l'eredità del pensiero gobettiano fosse stata rivendicata da almeno tre partiti politici di tradizioni all'apparenza inconciliabili: gli azionisti, i comunisti e i liberali. Questo solo fatto lascia intendere come in Gobetti, fatto salvo il suo intransigentismo morale e il suo disprezzo per ogni forma di compromesso, ci fosse una naturale tendenza, dovuta alla sua innata cupiditas sciendi e al suo protagonismo culturale, ad assorbire tutto ciò che era, o che gli appariva, innovativo e rivoluzionario o, forse, anche soltanto provocatorio. A cominciare, per esempio, dall'operaismo dell'Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, che un qualche subbuglio o qualche apprensione doveva pur sollevarli nella quieta, illuministica e raccolta Torino dei primi due decenni del '900, percorsa dalle prime pulsioni dell'industrialismo avanzante.
In Gobetti confluivano, così e in maniera del tutto naturale, diversi filoni speculativi che si traducevano in una visione della storia e della politica dai tratti, in qualche caso, ambigui e provocatori frutto di un uso personalissimo del lessico politico. Per questo i suoi testi, all'apparenza lineari, sono in realtà complessi e tutti da decifrare. Utilissima guida alla lettura di Gobetti, e ottima chiave per intenderne la complessità del pensiero, è un bellissimo saggio di Manlio Brosio dal titolo Riflessioni su Piero Gobetti (Aragno, pagg. XVIII-108, euro 15), appena ripubblicato con una bella prefazione di Bruno Quaranta.
Amico e sodale di Gobetti nei suoi anni giovanili, Brosio che, nel secondo dopoguerra, fu uno dei grandi protagonisti della politica nazionale e internazionale era sempre stato un liberale di solidi principi: lo era stato quando militava nella cosiddetta «sinistra liberale» e lo era rimasto quando, verso la metà degli anni settanta, si era schierato con la «destra liberale» di Edgardo Sogno. Il suo liberalismo, però, anche perché supportato da approfonditi studi giuridici, non poteva coincidere con le posizioni politiche e con i programmi d'azione di Gobetti. E qualche motivo di dissenso era emerso già ai tempi della loro frequentazione. Già nel luglio del 1924, per esempio, nel corso di una riunione del Gruppo degli Amici di Rivoluzione Liberale, Brosio aveva contestato la fiducia gobettiana nella classe operaia e ad essa aveva opposto l'importanza della borghesia e dei ceti medi.
Molti decenni dopo, forse all'indomani del suo incarico come Segretario Generale della Nato e da poco eletto senatore nelle liste del Pli, Brosio sentì la necessità di riflettere sia sul suo rapporto con Gobetti sia sul pensiero politico di questi. Le sue Riflessioni su Gobetti, una parte delle quali venne anticipata dalla Nuova Antologia di Giovanni Spadolini, furono pubblicate come quaderno della Gioventù Liberale di Torino e di esse si perdette traccia. Il fatto di averle ora riesumate dall'oblio è, già di per sé, una operazione meritevole di nota.
Il volumetto di Brosio, oltre a un affettuoso e vivace ritratto umane e intellettuale di Gobetti, ne presenta una analisi critica dei caposaldi concettuali giungendo alla conclusione che il fondatore di La Rivoluzione Liberale fosse, in realtà, «più un rivoluzionario che un liberale». Il suo liberalismo aveva, infatti, un connotato «più storico che politico, e più filosofico che storico, forse anche più religioso (istintivo e irrazionale) che filosofico». Legge fondamentale della vita politica e condizione di libertà era, per lui, la lotta, in particolare la lotta delle classi combattuta all'insegna di quel suo intransigentismo morale che ne spiega anche le posizioni antiriformiste, l'antigiolittismo e lo stesso antifascismo. Nella classe operaia egli vedeva l'unica entità in grado di portare avanti la lotta politica in un progetto di rinnovamento delle classi dirigenti: non a caso, egli finì per scorgere una dimensione liberale nella rivoluzione russa e mostrò fiducia nei consigli di fabbrica promossi da Gramsci.
Le pulsioni rivoluzionarie ed operaistiche di Gobetti erano assai lontane dal liberalismo di Brosio, come questi riconosce, senza mezzi termini: «l'operaismo di Gobetti non mi aveva mai convinto; pur comprendendo e rispettando il valore del movimento operaio, non condivisi mai la fede profonda di Gobetti nella classe operaia come classe nuova e capace di assumere una funzione politica decisiva nel rinnovamento dell'Italia». Analoghe riserve le avrebbe espresse un altro liberale della covata gobettiana, Paolo Vita-Finzi, finissimo scrittore ed eccellente diplomatico: «se ammiravo l'intelligenza e la vertiginosa attività di Gobetti, le sue idee mi avevano sempre lasciato perplesso: per quanto sia elastica la parola liberale non riuscivo a persuadermi che la rivoluzione russa fosse un atto di liberalismo».
In fondo, secondo Brosio, alla base dell'operaismo di Gobetti, «tipico intellettuale piccolo borghese», agiva un «populismo, che, malgrado il suo realismo e il suo distacco, non l'aveva mai abbandonato». Tuttavia, accanto a tutto ciò, v'era in lui una profonda diffidenza nei confronti della «palingenesi comunista o socialista, ossia al superamento della lotta di classe in una società collettivistica». Donde una comprensibile sintonia con il liberismo economico visto come una condizione necessaria, anche se non sufficiente, del liberalismo.
Quel che resta vago e indeterminato, nel pensiero gobettiano, sono proprio i concetti di libertà e di liberalismo. Il che fa sì che egli abbia potuto, e tuttora possa, essere assunto nel Pantheon dei precursori forse a torto o forse a ragione da più parti politiche.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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