SuperMario, finto grigio all’ombra dei potenti

Più che un tecnico, è stato un abile tessitore di relazioni dentro la classe dominante

SuperMario, finto grigio  all’ombra dei potenti

«Il grigiocrate» s’intitola il recentissimo saggio di Augusto Grandi, Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano per le edizioni Fuori Onda. Verrà presentato oggi a Roma al Circolo della Stampa Estera alle 17.30. Ancora più allarmante il sottotitolo: «Nell’era dei mediocri».
Si tratta di una biografia politica di Mario Monti. La casa editrice che lo pubblica è dichiaratamente di sinistra, gli autori pressoché di destra, il prefatore, Piero Sansonetti, è stato direttore di Liberazione, quotidiano comunista. Tutti sono d’accordo - bipartisan - su un fatto: «the man in gray», l’«uomo in grigio» come chiamavano Monti a Bruxelles quand’era commissario europeo, ha un certo numero di conflitti di interesse all’attivo. Dunque non è scontata - anzi, ha un che di civile - la domanda: «Per chi sta lavorando davvero l’attuale presidente del Consiglio?».

L’interrogativo è nell’aria da novembre scorso. Il saggio prova a dare una risposta chiara fin dai titoli dei capitoli: «Monti nella Torino di Valletta», «Alla corte degli Agnelli», «Il grigiocrate non è un lone wolf», «Al servizio dei petrolieri?», «L’Unto di Re Giorgio» (Napolitano), «Il vassallo di Angela e Nicholas» (Merkel e Sarkozy). Sono questi i veri «referenti» di SuperMario? Esagerazioni complottistiche? Parrebbe di no. Il curriculum di Monti è su Wikipedia: gli autori hanno solo unito i trattini, ottenendo la fotografia, più che di un tecnico, di un abilissimo tessitore di relazioni all’interno della «classe dominante», per dirla con il saggista americano Angelo Codevilla.

Si parte dall’arrivo di Monti a Torino dove il ventisettenne professore conosce i coniugi Mario Deaglio e Elsa Fornero (quest’ultima mal sopportava, ironia della sorte, «l’abitudine dei torinesi di piangersi addosso»). Una coppia «a distanza siderale» dall’Ivrea di Olivetti. Particolare non da poco: se Adriano Olivetti si preoccupava della vita spirituale della classe operaia, la futura ministra maturava in direzione opposta, diciamo tatcheriana: verrà infatti recuperata decenni dopo da Monti per il dicastero del Lavoro.
Feeling montiano anche con gli Agnelli: il Nostro entra nel Cda Fiat nel 1988 per la sua natura «grigia» che non mette in ombra l’Avvocato e la sua squadra. Animo poco industriale e molto finanziario, resterà nel Cda fino al 1993, attraversando l’epoca delle tangenti pagate dalla Fiat ai politici. Sapeva? Non sapeva? «L’uomo della Trilateral e della Bilderberg, della Goldman Sachs e di Brueghel era distratto». Rimane che da commissario europeo alla Concorrenza (1999-2004) Monti esaminò otto richieste Fiat di aiuti pubblici: ne accolse cinque (per 500 miliardi di lire) e ne respinse tre (131 miliardi). E dal rapporto con la Fiat il suo «equilibrio bipartisan» trovò presto nuovi sbocchi strategici.
Prendiamo la Bocconi. Monti diventò rettore perché Grande Stevens, vicepresidente Fiat, e il Dc Beniamino Andreatta desideravano «una sponda amica» nell’ateneo. Insediatosi, portò a Milano numerosi professori bolognesi della compagnia di giro della casa editrice Il Mulino, che è come dire prodiani doc: non è difficile capire perché Banca San Paolo, vicina a Prodi, diventò uno dei finanziatori dell’università.

Allo stesso modo si respira troppa aria di chiuso nella recente nomina a consulente del governo di Giuliano Amato (curatore, tra l’altro, di uno studio su una nuova governance europea, studio che Monti stava seguendo prima di dimettersi dalla Trilateral a favore di Jean-Claude Trichet, predecessore di Mario Draghi alla Bce, e qui il cerchio degli interessi dell’euro-élite si chiude) e in

quella di Enrico Bondi a commissario per la spending review: quel Bondi che in Parmalat fu datore di lavoro del figlio di SuperMario. Che per essere un grigiocrate, questa volta ha brillato un po’ troppo di savoir faire.

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