Il trombettiere salernitano che cercò di salvare Custer

Lo chiamavano John Martin ma il suo nome era Giovanni Martini. Era nato trovatello, combattè con Garibaldi, si salvò a Little Big Horn. E morì due volte...

Il trombettiere salernitano che cercò di salvare Custer

John Martin morì suonando la tromba. Sparò un «fortissimo» sull`ultima nota di "The girl I left behind me" e stramazzò in tutte le sue centottanta libbre tra i tavoli affollati di «Dante's Inferno». Fece in tempo a dire che gli togliessero gli stivali perché non voleva andarsene con le scarpe ai piedi. Lo accontentarono. Senza mollare la tromba gridò «Garibaldi!», sorrise, stese le gambe e spirò, all`età tonda di anni 70. Così almeno racconta la leggenda e la versione dello storico John R. Dagostino, perché altri dicono invece che morì più modestamente a Brooklyn investito da un camion come uno svampito qualsiasi.

Ma la vita di John Martin è sempre stata così, piena di ombre e di misteri a partire dal nome che non era neanche quello: si chiamava infatti Giovanni Crisostomo Martini, veniva da un paesino in provincia di Salerno e appena nato era stato affidato alla Ruota dei Proietti dove si abbandonavano i trovatelli. Tutti sapevano però, a Broadway, chi era John Martin e che era stato qualcuno. Non per avere suonato come seconda tromba nelle Alexander's Ragtime Band con acrobatismi cacofonici che avrebbero fatto impazzire Artie Shaw, e neppure per quel suo corpaccione ch`era tutto un tatuaggio, dopo cinquantasette sedute a Chinatown sotto gli aghi di Ciang Wu il cantonese. Giovanni Martini, trombettiere col grado di caporale, era stato l`unico del Settimo Cavalleggeri a salvare la pelle a Little Big Horn, dove il tenente colonnello George Armstrong Custer e 213 giubbe blu persero la vita spazzate via da tremila pellerossa. Lui fu l`ultimo a vederlo vivo.

Da Garibaldi a Custer

Piccolino, non arriva al metro e settanta, un po` strabico e con i baffi a manubrio, è tamburmaggiore con Garibaldi contro i KaiserJaeger a Bezzecca, dove, quattordicenne, suona la carica, emigra poi negli States ventiduenne, su un clipper britannico che lo sbarca a New York. Ted «l`Amour» Wellington Jones, noto a Harlem come «il re dei ladri», che gestisce dodici bische, il giro delle ragazze e metà del commercio degli alcolici, lo piazza nell'orchestra di uno dei suoi locali, gli cambia nome e gl`insegna tutto sugli strumenti a fiato. Quando un anno dopo si arruola volontario nel Settimo Cavalleria, gli suggeriscono, per far bella figura, di imparare gli inni preferiti dal comandante. Custer era il generale più famoso d`America, aveva combattuto con successo con la bandiera dell`Unione nella Guerra Civile, sembrava un cavallerizzo da circo equestre, tant`era vanitoso nella sua giacchetta da ussaro e nei calzoni attillatissimi di velluto nero con i pizzi dorati. I suoi capelli biondi, arricciati con i ferri caldi fin sulle spalle, erano la preda ambita degli indiani che lo chiamano Occhi di cielo col giuramento di cavarglieli. Pehin Hanska, «Lunga Capigliatura» glielo affibbiò invece Toro Seduto, il capo dei Sioux; Sky Eyes, «Occhi di Cielo» lo battezzarono invece i Cheyenne per il suo sguardo azzurro-freddo, quando uccise a colpi di sciabola il loro capo Black Kettle nel 1868, in un`imboscata a Washita, nel Kansas. Martin lo ammirava proprio per i suoi difetti. Prima di tutto, come Garibaldi, Custer aveva un`interpretazione pittoresca, irriducibilmente personale, dell`uniforme: giacca in pelle di bufalo, calzoni di daino con frange svolazzanti sulle cuciture, stivali di cuoio rosso alti sino alla coscia, frustino bianco accanto alla Colt Peacemaker nella cintura. In più era indisciplinato, audace e imprevedibile quasi quanto Garibaldi, da cui si distingueva però per mancanza di generosità e d'intelligenza militare. Giovanni suona così bene che il generale gli assegna la tenda migliore, un sauro neropezzato e il grado di caporale. A Little Big Horn, nella battaglia tra indiani e cowboy più famosa della Storia, è a lui che Custer intima i primi squilli di tromba gridando: «Signori, avanti per il Settimo». Sono le tre del pomeriggio del 25 giugno 1876. Un`ora dopo il terreno è coperto di morti.

La madre di tutte le battaglie

Prima della battaglia Custer chiama per un rapido consiglio di famiglia i due fratelli Tom e Boston Custer, pazzi come lui. Alle prime note di Garryowen, si lancia al galoppo in testa ai suoi uomini ma, appena oltre il crinale, vede salire una marea d'indiani, a piedi e a cavallo. Salta a terra, e con il cannocchiale inquadra i tre capi indiani: Cavallo Pazzo, Coda Macchiata e Pioggia sulle Faccia. Impreca, perché il suo acerrimo nemico Toro Seduto non è con loro. Pur nella sua follia, capisce che le cose si stanno mettendo male: i suoi uomini hanno cento colpi a testa, c'è bisogno di altre munizioni. Giovanni però afferra perfettamente la situazione, e si offre volontario per cercare rinforzi. Ma, sapendo a malapena la lingua, resta impalato davanti a Custer, incapace di trascrivere il messaggio che questi, sempre più furente, gli detta. Alla fine il messaggio viene vergato dall`aiutante di campo, il capitano Bill Cooke: «Benteen - venite - grande accampamento - fate presto - portate pacchi». I pacchi, cioè le munizioni. Giovanni agguanta il foglietto, senza mollare la tromba balza a cavallo e, mentre volano le prime fucilate, si tuffa giù per la collina. Piegato contro il lato sinistro dell`animale per farsene scudo, come aveva imparato in Francia tra i girovaghi: con la sua Colt 45 abbatte un paio d'indiani, raggiungendo in venti minuti le avanguardie di Benteen, cui consegna il messaggio di Custer. Ma Sioux e Cheyenne ormai arrivano da ogni parte e a John non resta che ripiegare: l'unica via aperta è quella che riporta a Custer. Dalla parte nord-est della collina non ci sono indiani, concentrati tutti dall`altra parte. In meno di mezz`ora John Martin è di nuovo tra i suoi. Nessuno gli bada, perché ognuno è impegnato a far fuoco, per impedire agli indiani di raggiungere il crinale. D'un tratto Sioux e Cheyenne si ritirano, e Custer dà ordine di raggiungere il cosiddetto «dorso di porco» dov`è oggi il monumento che ricorda il massacro. Fa abbattere una trentina di cavalli per formare una barricata, in attesa di rinforzi. Ma gli indiani stringono da ogni parte la collina. Custer, per primo, riprende a sparare. Non più con la Colt, ma con una carabina Remington Sporting a canna ottagonale, presa dalla borsa appesa alla sella e in piedi, fa fuoco con calma: a ogni colpo, abbatte un indiano. Uno di questi, caduto nella polvere ma ancora vivo, gli balza d'improvviso addosso, Custer inciampa in avanti proprio mentre fa fuoco con la sinistra, si ferisce al petto, rovescia l'indiano ma si prende nella tempia una pallottola. Così morì il rodomonte del Settimo, Figlio della Stella Mattutina per i Crow, Occhi di Cielo per i Cheyenne, Lunga Capigliatura per tutte le altre tribù.

L'ultima fuga

Giovanni si becca una palla all`avambraccio, si nasconde sotto la carcassa di un cavallo e si finge morto, poi si libera della divisa, spoglia Custer ne indossa i calzoni di foggia indiana e temendo di essere considerato un disertore sparisce per due anni. Quando torna nell`esercito dice di aver perso la memoria e di averla riacquistata da poco: lo reintegrano con il grado di sergente maggiore. Va a lavorare nel Wild West Show con Buffalo Bill, Toro Seduto e cinquantadue guerrieri Sioux e Cheyenne. Lascia la divisa e si trasferisce a Broadway a timbrare biglietti della metropolitana e poi a vendere dolci, ha tre mogli, otto figli e un`amante, Bessie Keogh, la figlia più giovane dell`uomo che lo aveva arruolato nel Settimo.

La sua tromba, abbandonata sul campo di battaglia e ritrovata dal guerriero Donnola Gialla, è in una teca di vetro nel museo di West Point. Le sue ossa, contese dalla moglie e dall`amante, sono metà a New York e metà a Norwolk nell`Ohio sotto due tombe diverse.

John Martin di là, Giovanni Martini di qua.

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