Wendell Berry, l'America di periferia al centro dell'anima

Poeta "contadino" e grande romanziere, in "Hannah Coulter" descrive il proprio Paese visto da una cittadina del Kentucky

Wendell Berry, l'America di periferia al centro dell'anima

Lasciate le classifiche dei «libri più belli del 2014», stilate ovunque da chiunque, e scoprite Wendell Berry. Se il suo Jayber Crow (edito da Lindau) è stata la rivelazione della recente stagione letteraria, è da poco in libreria, per lo stesso editore, Hannah Coulter che conferma tutta la grandezza di uno dei migliori scrittori americani contemporanei, purtroppo ancora poco noto ai lettori italiani.

Negli Stati Uniti Berry non è solo uno scrittore di culto, ma è venerato come il maggior poeta vivente e come uno dei pochi saggisti coerenti, capace di difendere le proprie posizioni anche oltre la barriera della carta. Berry è sempre in prima linea nell'opporsi alla barbarie che inevitabilmente comporta il sempre maggiore progresso tecnologico che la nostra società spesso considera naturale. Berry non è un luddista, ma uno «scrittore contadino con tre lauree», figlio di un avvocato e proprietario di piantagioni di cotone, che da sempre protesta, anche con prese di posizione radicali in sintonia con la «disobbedienza civile» teorizzata da Thoreau, contro la desertificazione del paesaggio rurale e umano delle piccole comunità. Nei suoi romanzi lotta perché la più estrema provincia americana non diventi periferia dell'anima. In Jayber Crow - un romanzo scritto con tale maestria da far impallidire tutti i vari scrittori che ci spacciano come autori del «libro dell'anno» - racconta la «Storia della vita di Jayber Crow, barbiere, membro della comunità di Port William, scritta da lui medesimo». La storia di un uomo tra amicizie e amori, gioie e dolori, in una piccola cittadina del Kentucky, l'immaginaria Port William. Che non è Peyton Place o i sobborghi newyorkesi raccontati da John Cheever, Richard Yates o Stephen Amidon, ma una piccola comunità che Berry descrive nel suo quotidiano attraverso un protagonista dallo sguardo incontaminato, ma al contempo illuminato su un'America che deve fare i conti non tanto con i crolli della Borsa o con la recessione, ma con le proprie macerie morali.

In Hannah Coulter (pagg. 288, euro 19, nella traduzione di Vincenzo Perna), torniamo nella comunità immaginaria di Port William, attraverso la voce della protagonista che racconta in prima persona la propria storia. Hannah Coulter ha alle spalle due matrimoni e tre figli. Vedova, trascorre la vecchiaia nella sua fattoria ricordando le vicende della propria esistenza (le gioie e i dolori della gioventù, la guerra, il lavoro, l'allontanamento dei figli) e rileggendole con la sensibilità e la saggezza che gli anni le hanno dato. Non un romanzo di nostalgia. Anzi: Hannah racconta come ha vissuto l'America degli ultimi ottant'anni (dalla Grande Depressione degli anni '30 alla seconda guerra mondiale, dall'«American Dream» della società del benessere al declino provocato dall'abbandono delle campagne), ma allo stesso tempo racconta la propria vita e quella degli abitanti della sua piccola comunità: personaggi spesso eccentrici, solitari, bizzarri, ma che alla fine non hanno mai dimenticato il senso ultimo della vita.

«Devo raccontare del dolore della mia gente», si legge a pagina 91, «perché credo che il dolore della perdita sia qualcosa che non si può dimenticare e a cui non si può sfuggire. Sappiamo che ogni notte, in qualche luogo ci sono persone insonni in preda al dolore, e che ogni mattina altre persone si svegliano e fronteggiano assenze che non riusciranno mai a colmare. Ma stringiamo i denti e andiamo avanti. Stiamo “bene”. Ci sarà sempre qualcuno che si lamenta, ma la risposta corretta alla domanda “Come va?” è “Bene”». «Cio che temevi di più», scrive, «alla fine si è avverato. La cosa peggiore che ti poteva capitare è successa, e tu non te l'aspettavi. \ Con tutto ciò: “Come va?” “Bene, e tu?” “Anch'io”». Perché «dietro questo atteggiamento si nasconde sempre una certa dose di vergogna e di paura: vergogna per il tremendo egoismo e la tremenda solitudine del dolore, paura della distanza tra il tuo dolore e quello degli altri. Ma si nasconde anche una forma di cortesia e onestà, una riluttanza ad agire come se la perdita, il dolore e la sofferenza possedessero qualcosa di straordinario. E anche qualcos'altro: un omaggio alla solitudine in cui il dolore che ti tocca dovrà essere sopportato. Puoi forse scoppiare a piangere sulla spalla del vicino mentre state lavorando? O entrare in un negozio con gli occhi gonfi di pianto? No. Tu stai bene».

Questo è Wendell Berry. Nessuna nostalgia. Perché tutto questo ci rende umani, e questa umanità ci porta prima alla paura e poi alla comprensione del fatto che ogni perdita è stata una ricchezza.

E che tutte quelle ricchezze, i vivi e i morti, i presenti e gli scomparsi, hanno reso la nostra vita degna di essere vissuta. Una vita che possiamo continuare a vivere nel ricordo: che significa, in fondo, riviverla da capo, per sempre.

Twitter: @gianpaoloserino

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