D’Alema si arma per riprendersi il partito

Il "líder" impugna la mazza contro gli avversari interni: "Questi dirigenti sono poca cosa". E smonta le primarie. Franceschini e Veltroni in silenzio. Fassino dispiaciuto. Gaffe e proclami: al congresso come al cabaret

D’Alema si arma per riprendersi il partito

Roma - Erano anni che non sentivamo il clangore delle mazze ferrate che si abbattono sulle ossa, anni che le battaglie politiche dentro il Pci-Pds-Ds venivano combattute con stile rinascimentale, congiure complotti e veleni alla maniera dei Borgia, piuttosto che in campo aperto, con il corpo a corpo e la battaglia che insegue il sangue. E invece, dalla festa dell’Unità di Roma, l’altroieri è arrivato il grido di guerra del re barbarico, Massimo D’Alema, ma sarebbe forse il caso di dire Quinto Fabio Massimo perché l’ex ministro degli Esteri davanti ai militanti e ai simpatizzanti, che erano accorsi per vederlo a Caracalla, si dev’essere ricordato la vicinanza con il Circo Massimo, e ha sfoderato un piglio gladiatorio.

Scendendo dal palco, a microfoni spenti, omaggiato da strette di mani e inviti a non mollare, D’Alema ancora sussurrava ad un compagno della sua sezione: «Mi toccherà rimettere mano anche lì, perché mi sono distratto un attimo, e me l’hanno cancellata». Quindi Massimo torna alla guerra come un eroe omerico, ritorna a indossare l’elmo come un vecchio combattente, torna a calzare l’armatura. Nessuno, nemmeno i suoi, si aspettavano una carica polemica così radicale, un attacco frontale senza precedenti, quel grido, consegnato all’intervista con Antonio Polito, direttore del Riformista: «C’è stata una ventata di anarchia in cui pareva che l’unico obiettivo fosse distruggere il partito». No, anzi, di più: «Non credo che esista nessun partito in cui un gruppo dirigente, pur di sopravvivere, fa la guerra alle personalità più importanti del partito. Un gruppo di dirigenti che fa così è ben poca cosa».
Ovvero: fare guerra a lui, al líder maximo, fare guerra con frasi, come quelle pronunciate in una ormai celebre intervista da Debora Serracchiani la pasionaria luterana veltroniana a Repubblica: «Da una parte c’è il Pd, dall’altra c’è D’Alema».

E invece D’Alema fa esattamente l’operazione opposta, ricorre ad uno schema classico, che vivificato dalla sua forza polemica si declina così: da una parte ci sono quelli che vogliono distruggere il partito, dall’altra c’è D’Alema che lo difende e in questo clima psicologico, D’Alema tocca ovviamente le corde che sono care ai militanti, spiega la sconfitta negata (da Veltroni e Franceschini) con la cancellazione degli apparati, con la demonizzazione dei funzionari, con lo svuotamento del partito: «Se un iscritto a un partito non ha più neanche il potere di decidere quale deve essere il nome del segretario del suo partito, perché mai dovrebbe iscriversi?». Ad ascoltare D’Alema, c’era una platea vasta, in cui si trovavano rappresentate tutte le anime composite non solo del Pd ma di quasi tutta la coalizione: quadri dirigenti di Sinistra e libertà, amministratori locali di estrazione popolare, militanti di base, intellettuali, iscritti di vecchia data e semplici simpatizzanti, militanti del vecchio Pci, ma anche giovanissimi che hanno preso la tessera ai tempi delle primarie di Veltroni, e che non avevano fatto nessuna esperienza politica. Colpiva il fatto che di fronte all’elettroshock da Legnano, non ci sia stata nessuna contestazione, non un coro di fischi, non un moto di dispetto. Ma piuttosto decine di applausi a scena aperta, invocazioni, risate, soltanto due grida isolate più interrogative che aggressive.

Il vero nodo di questa contesa si può riassumere in un rischio che dopo il discorso di D’Alema, il Pd corre in maniera ormai innegabile: quello dell’esplosione. Un esperto dirigente della mitica Vigilanza del Botteghino, per esempio, spiegava ai suoi compagni che per la prima volta, dopo tanti anni, intravedeva nei discorsi di Veltroni e dell’ex ministro degli Esteri, una sostanziale e drastica inconciliabilità. Perché da un lato c’è Veltroni che afferma il suo postulato: «il Partito democratico - ha detto alla convention del cinema Capranica - o è a vocazione maggioritaria, oppure non esiste». E dall’altro c’è D’Alema, che addirittura prefigura una possibile illegittimità del leader designato dalle primarie degli elettori: «Ho spiegato a degli amici americani come funzionano le nostre primarie, mi hanno chiesto se per caso non fossimo impazziti».

E ancora «Dicono che si sono ispirati all’America, ma in America prima votano gli elettori, e alla fine decide il partito, nella convention. Invece, con questo singolare statuto che è stato approvato, prima votano gli iscritti, e poi decidono non gli elettori, ma chiunque si rechi al seggio ad esprimere il suo voto». D’Alema aggiunge anche che in America chi non fa parte del Partito democratico non può partecipare alle primarie, insinuando il rischio di un inquinamento in cui elettori del centrodestra potrebbero partecipare al voto. Anche qui, le considerazioni dell’ex ministro degli Esteri sono modellate sullo scenario possibile, dove Bersani sembra quasi sicuramente destinato a vincere fra gli iscritti, mentre un altro candidato potrebbe prevalere fra elettori e simpatizzanti.

E così la domanda è molto semplice: se la polemica e l’odio fra Veltroni e D’Alema assumono forme così plateali e deflagranti, che cosa può tenerli insieme? In passato, nei momenti più duri, ad esempio la crisi che portò alla rimozione di Prodi, l’unica cosa che mantenne un labile principio di convivenza era l’istinto del partito, quel sentimento che Andrea Romano ha definito il senso della famiglia: ci odiamo ma non possiamo fare a meno di convivere.
Oggi, paradossalmente, il fatto che i due contendenti leghino l’esistenza del Pd a due motivazioni politiche contrapposte (la legittimità degli iscritti per D’Alema, quella degli elettori per Veltroni), mette in crisi quel patto di convivenza, disarticola le ragioni della famiglia, rende i due contendenti estranei e nemici come e più che in passato. Veltroni lascia capire dal palco del Capranica che lui non ha nessun legame con un partito in cui vincessero i suoi avversari e in cui venissero negati i pilastri della sua segreteria.

D’Alema dice chiaramente che solo Bersani e il suo buon carattere, possono sgombrare il campo dai veleni. Appiattisce la posizione politica di Franceschini e la schiaccia su quella dell’ex segretario. Spiega che il congresso sarà lungo e doloroso. Costruisce battute salaci sul messaggio video di Franceschini, quello che ha aperto le ostilità con la famosa frase: «Mi candido perché non posso consentire a quelli che c’erano prima di prendere il controllo del partito». Battuta salace di D’Alema: «Strano, perché quelli che c’erano prima erano Rutelli, segretario della Margherita e Fassino, segretario dei Ds». Dunque, il bersaglio di quella frase, cioè lui, sarebbe un bersaglio illegittimo.

Ieri Fassino ha parlato per dirsi «dispiaciuto e sorpreso» delle parole di D’Alema, mentre Franceschini e Veltroni sono

rimasti in silenzio, come sotto choc. Quando il re barbarico impugna la mazza ferrata i suoi avversari possono solo scegliere se farlo anche loro o correre il rischio di rifiutare la battaglia, ma di finire schiacciati.

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