Dalle tenebre della malattia il "Cieco" svela l'invisibile

Massimo Fini racconta il suo glaucoma: la perdita dei riferimenti, la chiusura in se stesso, la paura

Dalle tenebre della malattia il "Cieco" svela l'invisibile

«Questa è la storia di un uomo che perde lentamente, gradualmente, inesorabilmente la vista. Quell'uomo sono io». Con questa «Introduzione brevissima» inizia Cieco (Marsilio, pagg. 84, euro 12) di Massimo Fini. Come viene insegnato a ogni giornalista, la distanza è fondamentale per scrivere un ottimo pezzo. Sappiate, cari lettori, che questa regola non sarà rispettata in questa pagina, e speriamo che il pezzo risulti almeno buono.

Sarà il caso di iniziare col dire che Massimo Fini ha una bibliografia destinata a sopravvivergli e superare la sua attività giornalistica, che di certo non è indifferente per mole e per importanza, anzi. Non è un fatto comune: in questo Fini è un caso (quasi) unico. Cieco appartiene al meglio di questa produzione letteraria e saggistica, quindi è imperdibile. È un libro bellissimo, toccante ma dotato di un eccellente sense of humour e lo scriviamo in inglese, per non confondere l'umorismo di Fini con l'umorismo di cui sentiamo parlare spesso a sproposito, consistente in realtà in battute da terza media quando va bene e spaventose barzellette sui politici quando va male, cioè quasi sempre. Fini invece scherza col fuoco della sua debolezza e della sua crescente solitudine. È un modo di interpretare la vita, un modo antico, che ricorda, più che la letteratura contemporanea, quella latina. Cieco ricorda più Seneca di Alessandro Baricco o Paolo Giordano, meno male.

Fini racconta, in modo astutamente leggero, una lotta inutile contro una malattia nota purtroppo a molti: il glaucoma. In parole semplici, a causa di una elevata pressione oculare, il campo visivo si restringe progressivamente. Alla fine si vedono solo macchie di colore, a volte neppure quelle. Si può rallentarne l'avanzata, con colliri, laser e operazioni chirurgiche, ma non si può vincere.

Fini racconta, dicevamo, e raccontando finisce col toccare una infinità di temi che, a dire il vero, interessano anche chi ha una vista perfetta.

Prima di tutto. Siete sicuri di guardare davvero cosa vi sta attorno? Domanda banale ma risposta complessa. È quando si teme di perdere la vista che si inizia a guardare sul serio. Forse è ovvio che sia così. Addirittura scontato. Ma se crediamo di sapere che le cose stanno in questo modo, perché continuiamo a osservare male quando siamo sani? E qui la risposta, che forse sarà diversa per ciascuno di noi, non è affatto ovvia e scontata.

Poi c'è la paura della malattia. Meglio non andare dal dottore, una visita di controllo è già mezza condanna, per chi è scaramantico. Una volta fatta la diagnosi, si entra in un altro campionato, dove si gioca sempre contro la stessa squadra, nettamente più forte e alla quale possiamo strappare al massimo qualche pareggio. Scusate la metafora calcistica, ma d'altronde Fini è un tifoso. La malattia, inesorabilmente, rischia di diventare l'unico orizzonte della vita, con largo anticipo.

Un altro tema, e problema, è la solitudine. Mano a mano che il mondo scompare, ci si trova imprigionati dentro se stessi. Certo, con un po' di fortuna e di impegno, avremo accanto le persone, poche o tante, che ci vogliono bene. Ma la solitudine resta: non si può prendere l'automobile e andare a trovare un amico lontano. Dipendere da qualcuno è due volte pesante, a volte pericoloso perché c'è sempre il rischio di trascinare nel gorgo della depressione (e del risentimento e del deperimento fisico) anche chi ci sta accanto. Ma non solo. Dice la ex moglie a Fini: «Massimo, io potrei accompagnarti in giro e dirti ciò che vedo e tu magari scriverne. Ma quello che vedo io non è quello che vedresti tu». L'esperienza del mondo è un fatto personale, sempre difficile da comunicare, a volte impossibile.

Di fronte alle tenebre, il pensiero, inevitabilmente, corre alla morte. Ma prima della morte c'è il perdersi a cinquanta metri da casa o sulla spiaggia versiliana, il non riuscire a riconoscere ciò che ci è famigliare, il nuotare al largo e non trovare più la costa. Tutte esperienze raccontate con esemplare ironia da Fini.

Il libro non si esaurisce qui, anche se sarebbe comunque già tantissimo. C'è spazio per divertenti avventure con le ragazze, nonostante l'autore fosse già da adolescente un «quattrocchi»; fughe in macchina spericolate; puntate, solo immaginate, nei casinò di tutta Europa, gli unici luoghi dove Fini porta la cravatta; ricordi di vita in redazione; donne (tante); il rimpianto per un bel whisky; un amore sconfinato, come la vista, per il mare e la Liguria in particolare.

Un qualsiasi «professionista della scrittura» avrebbe tirato fuori da questa storia un romanzone

da minimo quattrocento pagine, con penose digressioni filosofiche e lungaggini sentimentali. Fini, che è uno scrittore e non un «professionista della scrittura», tira fuori 84 pagine lucide, profonde e perfino divertenti.

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