Ha sempre accumulato tutto: cose materiali e altre meno. Mestieri (storico e critico d'arte, gallerista, giornalista, conduttore televisivo, insegnante, scrittore, politico, conferenziere). Lingue (alsaziano di nascita, parlava fluentemente francese, italiano, inglese, tedesco, spagnolo). Interessi (l'arte, la storia, la musica, l'editoria, la letteratura, il design). Abiti - eccentrici, come lui - e papillon.
E poi libri, manifesti, poster di vecchie mostre, stampe, lampade, vasi, fotografie d'autore, busti antichi, ritratti ottocenteschi, candelabri, scrittoi, cabinet, poltroncine, dagherrotipi, bronzetti e mirabilia varie...
Benvenuti nello studio-biblioteca - metà camera delle meraviglie, metà magazzino di una vita inimitabile - di Philippe Daverio, monsieur Passepartout: da quando se ne è andato (era il settembre 2020, a 70 anni) abbiamo perso uno dei più bravi raccontatori di cose culturali d'Italia. Eccoci qui, nell'ex refettorio di quello che era il monastero delle Domenicane di Sant'Agostino, in piazza Bertarelli a Milano, tra i luoghi manzoniani e la Torre Velasca. Quartiere che sa di antica aristocrazia, di tram, di botteghe, uffici e vecchie storie di pittori... Philippe e sua moglie Elena Maria Gregori, che stamattina ci ha invitato per una visita, hanno vissuto qui, a Palazzo Ravizza, per 54 anni, in quell'attico lassù. Poi l'appartamento alla morte di lui è stato venduto, e lei si è ritirata in un paio di locali attigui a quello che già da tempo era l'immenso studio di Philippe - di proprietà dello Stato e affittato alla famiglia Daverio - e che adesso si vorrebbe trasformare in una casa-museo.
«Philippe cominciò a farne il suo rifugio-bazar dopo che finì la sua avventura politica, quando dal 1993 al '97 fu assessore alla Cultura nella Milano del sindaco Marco Formentini» e da allora si sono accumulati volumi, oggetti, quadri e tranche de vie... Qui l'ordine naturale è il caos.
Il colpo d'occhio, entrando da un anonimo portoncino in fondo al secondo cortile del Palazzo, è impressionante: uno spazio a forma di «L» di 70-80 metri quadrati, soffitto altissimo con le volte a crociera e pavimento in beole secentesche, strapieno di tutto ciò che ha potuto accumulare negli anni un uomo di cultura, un po' dandy un po' intellettuale, che era curioso («No: curiosissimo»), onnivoro («Acquistava ciò che gli piaceva in quel momento: ha attraversato la fase déco, quella art nouveau, il periodo africano, quello in cui fui affascinato dall'Estremo oriente, quello napoleonico...»), eclettico («Un po' troppo forse...»), divertente, narcisista, vanitoso, «incapace di produrre denaro», sempre indaffarato in qualcosa, che adorava bazzicare mercatini, bancarelle, antiquariati e che «non sapeva separarsi dalle sue cose. Era quasi nevrotico in questo».
Domanda: cosa significa collezionare la follia?
Nelle varie librerie, di ogni dimensione e stile, sono stipati migliaia di libri («Quanti ne aveva? Mai contati... non so neanche quanti ne ha scritti»), senza alcun apparente ordine logico-razionale: saggi di architettura, storia di Milano, cataloghi d'arte, le poesie di Carlo Porta, classici francesi, cinquencentine, riviste, plaquette (ci sono quelle della Pulcinoelefante di Alberto Casiraghy), la Treccani completa, volumi della Lorenzo Valla...
Laggiù, sulla parete di fondo, accudito e restaurato negli anni, c'è un affresco imponente: una Crocifissione del primissimo Cinquecento di Donato Montorfano, gemella di quella dipinta in Santa Maria delle Grazie, di fronte al Cenacolo di Leonardo da Vinci. «Purtroppo questa è in condizioni molto sofferenti, alcuni pezzi nei secoli sono stati strappati e venduti: Philippe ha fatto di tutto per salvarla, finanziando i lavori, secondo le indicazioni della Soprintendenza, che in qualche modo ce l'ha affidata...». E poi tutto il resto: un osso di dinosauro alto un metro («In realtà forse è il femore di un Mammut... Philippe lo comprò a un'asta, e non so neanche perché...»). Due ritratti dell'Hayez di nobiluomini milanesi: uno pubblicato, l'altro semisconosciuto. Un enorme dipinto ottocentesco raffigurante un Maresciallo napoleonico. Bastoni da passeggio. Spartiti musicali. Le sue carte personali («Abbiamo le sue lezioni universitarie, inedite, e che prima o poi vorremmo pubblicare»). Una meravigliosa serie di stampe d'epoca raffiguranti tutte le battaglie di Napoleone. La sua Vespa 150 blu con il portapacchi carico di cataloghi («La usava moltissimo, non so neanche quante volte è caduto...»). Vecchi giornali, una lampada di gusto déco realizzata da un carcerato di San Vittore, un quadro del pittore-architetto Arduino Cantafora, fotografie di Gianni Berengo Gardin, chincaglierie varie - «Scusi il disordine», ma Elena Maria sa bene che è proprio il disordine la bellezza di questo luogo - e poi bronzi di Vincenzo Gemito e Arturo Martini, la statua di un Buddha tibetano, la locandina della Vedova allegra che andò in scena alla Scala nel 2008 in cui Daverio recitò nella parte del Njegus, chiamato dal regista Pier Luigi Pizzi. Una scultura luminosa - una mucca - di Marco Lodola. Quattro grandi uccelli di carta velina usati nelle scenografie di uno spettacolo di Franco Zeffirelli. E tre pianoforti: uno di allenamento che fu di Arturo Benedetti Michelangeli, uno Steinway con un'ottima voce e un piccolo pianoforte verticale tedesco. «Philippe era convinto di suonare meglio di quanto effettivamente fosse in grado... ma aveva tanta passione». Tant'è. Art'è...
Ci sarebbe da fare una mostra. «E infatti ci stiamo pensando, magari a Palazzo Reale, nel 2025... chissà».
Il rifugio babelico di Philippe Daverio dopo essere stato un refettorio fu utilizzato come scuderia, poi asilo, poi magazzino.
Lui ne fece un luogo dove presentare libri, allestire mostre, ospitare piccoli concerti. Ora qui è rimasta la sua enorme collezione, del tutto unica. Che se fosse dispersa perderebbe l'anima. Quella di Philippe. Che Dio - e Milano - non voglia.
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