Dazi e protezionismo possono causare conflitti pericolosi. E creare potentati

La chiusura dei mercati tra nazioni finisce per comprimere ancora i diritti di tutti

Dazi e protezionismo possono causare conflitti pericolosi. E creare potentati

Quale legame esiste tra i dazi e la guerra? Quale relazione c'è tra il nazionalismo economico del noi contro gli altri e la sua traduzione in un conflitto con morti e feriti, bombardamenti e invasioni?

Fortunatamente la storia segue logiche poco lineari, e non esiste un rapporto diretto tra l'innalzamento delle barriere agli scambi e lo scatenamento di un conflitto. La celebre formula attribuita a Frédéric Bastiat, secondo cui se una frontiera non è attraversata dalle merci prima o poi vedrà il passaggio degli eserciti, ha senza dubbio un suo nucleo di verità, ma per fortuna presenta una serie di eccezioni.

Eppure è vero che libero commercio e pace vanno d'accordo. Nel porto di Amsterdam il motto che troneggiava, nei secoli più gloriosi delle Province Unite, era «commercium et pax». Lo stesso campione del liberoscambismo inglese dell'Ottocento, Richard Cobden, vedeva la sua militanza in favore del mercato come inscindibile dal contrasto all'imperialismo britannico e alle logiche militari. Tutta una tradizione liberale ha sottolineato come i traffici ingentiliscano gli animi e quelli internazionali riducano l'isolamento delle distinte comunità.

Se in positivo le società più aperte hanno sempre cercato di coniugare l'apertura commerciale e il rigetto della guerra, è anche vero all'opposto che quelle più orientate al rafforzamento militare hanno spesso adottato strategie protezioniste. Fu questo il caso del Reich tedesco di secondo Ottocento, quando a partire dal 1879 (anche sulla scorta delle tesi di economisti come Friedrich List e Gustav Schmoller) furono introdotti dazi per proteggere agricoltura e industria.

Tanto il protezionismo quanto il successivo varo delle prime misure welfariste (pensioni, assicurazioni sanitarie e sugli infortuni, ecc.) avevano l'obiettivo di rafforzare la coesione sociale, fondendo società e Stato in una fase segnata dal processo di modernizzazione. Nella visione di Bismarck, la costruzione di una grande Germania con le conseguenze che ciò avrà nel secolo successivo passava anche da questa politicizzazione della vita produttiva.

Mentre sul piano della teoria economica il protezionismo è indifendibile (anche perché dovrebbe spingere a tutelare non solo l'economia nazionale dagli attori stranieri, ma anche quella regionale da quella nazionale, oppure quella comunale da quella regionale, fino a mettere in discussione la divisione del lavoro), esso è efficace nella comunicazione politica e può essere abilmente sfruttato dai demagoghi. Quando Trump alza i suoi dazi e l'Unione annuncia contromisure, ognuno sa di poter far leva sulla diffusa ignoranza dei principi essenziali dell'economia: a partire dal fatto che una barriera europea contro i produttori americani è anche un'iniziativa contro i consumatori europei. Oltre a ciò, questa misura rivendicativa rafforza l'appartenenza comunitaria a scapito del diritto di ogni singolo a interagire con chi vuole.

Il legame tra dazi e guerra, allora, è riconoscibile in vari modi.

Una barriera è già di per sé un'azione in qualche modo ostile, anche se ogni gruppo umano ha la facoltà di organizzarsi come vuole. Se una società sceglie l'autarchia, le altre non dovrebbero avere nulla da obiettare, dato che non necessariamente questa opzione autarchica si accompagna a violenza e minacce. Le politiche protezioniste, però, nel momento in cui ostacolano le decisioni dei cittadini inaugurano rapporti di inimicizia che possono sfociare in tensioni crescenti, in grado perfino di condurre a conflitti. Soprattutto, quando un governante si piazza tra di noi e un produttore cinese (oppure africano) quello che viene negato è il nostro essere individui con diritti inviolabili: liberi di comprare e vendere dove ci pare.

Questo ci conduce a un altro nucleo concettuale: al fatto, cioè, che le chiusure economiche favoriscono la costruzione di comunità politiche sempre più serrate. Nel quadro delle economie autosufficienti, infatti, quella che conta è l'economia nazionale, di cui ognuno di noi è una semplice componente. Alla reale o pretesa unità storica e linguistica s'aggiunge questa esigenza vitale di considerarsi economicamente solidali e quindi chiamati a proteggere con ogni mezzo quell'Io collettivo che sarebbe la nazione statizzata.

Un ulteriore elemento, infine, rinvia al nesso tra la dissoluzione del diritto che collega i dazi ai conflitti militari. Quando Cobden avversava il protezionismo e la guerra egli aveva ben chiaro come il tratto comune dei due fenomeni da vedere nel fatto che si tratta di modi diversi di aggredire la vita, la libertà e la proprietà. Oggi c'è poi un'altra considerazione da fare. Mettendo al centro del dibattito le barriere protezionistiche, Trump ha dato all'Unione europea un nuovo ruolo e una formidabile opportunità. Perché se la Ue è tante cose, essa è anche e soprattutto un'area di scambio che definisce i propri rapporti con le altre economie del globo.

Il guaio è che questa nuova centralità di Bruxelles ha luogo proprio nel momento in cui gli Stati Uniti hanno detto a chiare lettere che non vogliono più sostenere l'onere della protezione del Vecchio Continente. Così s'assiste a una sorta di guerra commerciale che si dispiega proprio mentre le élite europee parlano di riarmo, descrivono bizzarri kit per la sopravvivenza e immaginano un crescente coinvolgimento dell'Unione nel conflitto russo-ucraino. Nella rappresentazione di una buona parte delle élite europee, per giunta, Trump e Putin sarebbero la stessa cosa, o quasi.

Di fronte ai dazi americani la Ue dovrebbe immaginare negoziati volti a cancellare ogni protezione al di qua e al di là dell'Atlantico. Certo questo implicherebbe la fine della politica agricola europea, che da sola vale la metà del bilancio comunitario, e soprattutto la messa in discussione di una regolazione che sbarra la strada ai prodotti non europei. Invece tra coloro che auspicano un rafforzamento dei poteri di Bruxelles non manca neppure chi vede nei contrasti commerciali un'occasione formidabile per inventare dal nulla una sorta di nazionalismo europeo.

Per fondere culture così diverse, però, ci sarebbe bisogno di una guerra: dato che ogni nuova istituzione ha bisogno di martiri e feste commemorative, e si consolida nel fuoco della battaglia.

Speriamo davvero che le cose non vadano così.

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