Delfini nuotava lontano dai gorghi dei canoni

Eccentrico rispetto sia all'avanguardia sia alla tradizione, era un cabbalista delle parole. Aveva soltanto due miti: Leopardi e il suo antenato Pico della Mirandola

Delfini nuotava lontano dai gorghi dei canoni

Si toglieva un anno - «è nato a Modena il 10 giugno 1908», scriveva nella nota ai suoi libri - senza altro vezzo che una candida sprezzatura, la voluttà di fare del tempo un bidet, sputando sulla geometria euclidea del quotidiano. Ah... dovremmo riviverla eternamente la vita di Antonio Delfini, farne un calco, un idolo, un mausoleo: è l'emblema dello scrittore, una tigre nella Bassa - come quelle che dipingeva Ligabue -, estremista della solitudine, autore, sempre, di libri unici - perciò introvabili, inarrivabili. Scelse, per criterio cristico, Antonio Delfini - nome azzurro che pare una capriola -, di perdere ogni cosa. Rampollo della nobiltà terriera modenese, si fa grande senza padre, con una madre che «non sapeva usare il telefono, non si serviva del treno... era incapace di sostituire una lampadina»; fu autodidatta in tutto, dunque pioniere, «da bambino non andavo a scuola... mi iscrissi a dodici anni al fascio, che trovavo assai più divertente». A Parigi, nel 1932, sfiora André Breton: gli basta per importare il surrealismo in provincia, shakerandolo al fango del Po. Portava il cappello a tesa larga, come un cow boy padano: la cauta gentilezza dei modi nascondeva un che di pericoloso, di violento.

A Telesio Interlandi, all'epoca direttore de Il Tevere, confessò il suo «donchisciottismo scalmanato». Ideò riviste per il gusto luculliano di vederle fallire: nel '27, con Ugo Guandalini (ovvero Guanda), L'Ariete che «ebbe la vita di un numero»; nel '28 Lo spettatore italiano, che «durò qualcosa di più: cinque numeri». Quando, nel 1952, fonda Il Liberale, Periodico politico indipendente stampato a Viareggio, Delfini è ormai un uomo che all'energumena energia dissacrante fonde l'epica del disastro. Si scagliava contro i «mostri melliflui, ipocriti e sibariti» che ingolfano la nostra vita politica. Aveva parteggiato per il movimento di Unità Popolare: «come candidato fece l'attacchino, l'oratore, l'attivista», ricorda; pigliò 630 voti. L'anno prima aveva pubblicato con Guanda il memorabile Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia. A Roma era stato alla corte dell'amico Mario Pannunzio, ma non sopportava la protervia della Capitale; a Firenze frequentava il Giubbe Rosse, quello affollato da Montale, Gadda, Luzi, Carlo Bo, ma ci andava di notte, gli facevano tristezza gli «illustri signori che ivi convenivano». Preferiva litigare con Tommaso Landolfi, «pochi scrittori, credo, hanno odiato gli altri scrittori come li ho odiati io», scriverà, più tardi.

Aveva due fari, due miti: Leopardi, il modello letterario («mi misi a leggere Leopardi - Zibaldone - col quale speravo di imparare a scrivere») e Giovanni Pico della Mirandola, suo antenato (così diceva, dando alchimia alla menzogna). Delfini fu, in effetti, un cabbalista del verbo, capace di forgiare tremendi anatemi («È la gran moda democristiana:/ restare vergine e far la puttana»: per Bassani le sue Poesie della fine del mondo sono santissima «bestemmia») e mirabili rebus. Il più noto è quello che chiude Il ricordo della Basca, storia stralunata ed esotica, bellissima, tra Gauguin e Christopher Nolan, «Ene izar maitea/ ene charmagarria...: una cobla in lingua basca, come ha svelato Giorgio Agamben - delfinologo di platino -, dalla lirica cristallina, «Mia stella amata/ mia incantatrice...».

Il ricordo della Basca, soprattutto, è il capolavoro di Delfini: raccolta di racconti esemplari, di esasperata bellezza, fuori dal tempo, impazzita cronaca della città di M*** («piccola città di provincia» che adombra Modena), pubblicata nel 1938 da Parenti, Firenze, ripubblicata nel 1956 da Nistri-Lischi, Pisa, riedita nel 1963 da Garzanti, con cui Delfini vince il Premio Viareggio. Postumo, ovviamente - ve lo immaginate, Delfini a fare il chierichetto a un premio letterario italico? -, perché Delfini, pare strano, morì, nel febbraio del '63, in scherno al destino («ha voluto giocare l'ultima burla», scrisse un amico). Oggi quel libro ritorna, con il titolo I racconti (Garzanti, pagg. 336, euro 25), per la cura di Roberto Barbolini, discepolo di Delfini, modenese, autore pure lui di libri per lo più inclassificabili. «Il bello di Delfini è che non appartiene a nessun canone», mi dice Barbolini, appena lo stuzzico. «È una specie di monolite piovuto chissà da dove, eccentrico sia rispetto all'avanguardia che alla tradizione. Se fosse possibile inserirlo in qualche casella prefabbricata sarebbe uno scrittore solo contro tutti, uno di quei grandi irregolari che ci sono indispensabili».

Il rischio, piuttosto, è fare di Delfini un minore, un superuomo di provincia, incapsulato nell'autentico contro-canone del Novecento nostro (Landolfi; Manganelli; Piovene; Parise; Berto; Pomilio). Non è così. Delfini è autarchico, autoritario, atrofizzato nell'altrove; è il fondatore di una geografia letteraria nuova. Ha scritto l'incipit più bello di sempre («Se avessi avuto altri amici, o non li avessi avuti affatto, sarei diventato un grande narratore, prima della caduta del fascismo; e dopo lo sarei rimasto»), la chiusa più bella («Poi piano piano tornò a sedersi sulla sua poltrona morbida a fiorami. Sul letto la coperta bianca coi pizzi era ingiallita e dava cattivo odore soltanto a guardarla. Si soffocava. La signora Elvira non poteva tornare indietro nel tempo»), ha creato tipi indimenticabili (io adoro Il contrabbandiere, «un certo poetastro, uomo di forte ed eccezionale corporatura, in complesso bello benché la durezza dei suoi lineamenti e lo sguardo un po' torvo lo facessero sembrare brutto, di nome Maltinor»). Secondo Luigi Mascheroni il racconto più riuscito di Delfini è La modista; secondo Barbolini - che si allinea al giudizio di Cesare Garboli - è Il 10 giugno 1918: «Narra il vagabondaggio in bicicletta del bambino Delfini per le strade di Modena nel giorno del suo decimo compleanno, tra funerali e festeggiamenti per la vittoria nella Grande Guerra, e termina con quei sogni di ferro, di sangue, di morte, d'amore e di pietà che prefigurano il futuro scacco esistenziale dello scrittore», mi dice. Io preferisco Caterina detta la morte, il racconto - mai scritto, ovviamente - di quella «vecchia donna di oltre novant'anni» che «circola da tempi immemorabili intorno al Duomo di Modena» e «ripensa la vita di tutti i personaggi rappresentati nelle sculture di Wiligelmo e li rapporta alla vita di quegli esseri viventi che vede passare davanti a lei». Caterina ha «immagini di una dolcezza sconfinata», ai suoi occhi «tutte le azioni, anche le più brutte, diventano dignitose». D'altronde, solo attraverso la ferocia si sfiora lo splendore. Odiava il buon gusto, la disumanità dei vili, Delfini. Disperatamente amò, morì derelitto o quasi, spesso riappare nei meandri dell'editoria per riaffogare, ancora, appagato di menefreghismo, nel nulla.

Nei suoi racconti gli incontri sono assoluti, come una chiazza di vetro conficcata nell'occhio. E la nostalgia - quella recrudescenza dell'anima - è vasta come la piana intorno al Po, da cui dilaga la nebbia, verde e bituminosa, che tutto lecca, tutto annienta - e, finalmente, si muore.

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