Epitaffio per la spia. La storia avventurosa di un Novecento che non c'è più

Diego Gabutti analizza un genere perduto: la spy story

Epitaffio per la spia. La storia avventurosa di un Novecento che non c'è più

Su una cosa Francis Fukuyama, il contrastato, ovvero osannato e bistrattato autore di La fine della Storia, aveva visto giusto: con il chiudersi del Novecento e il venir meno del comunismo marxista, è stata la storia con la «esse» minuscola, vale a dire il racconto segreto, anzi segretissimo, al presente, al passato e al futuro, a perdere le coordinate. A tutt'oggi non le ha ancora ritrovate.

Questa constatazione la fa Diego Gabutti, appunto in Segretissimo (Gog edizioni, pagg. 312, euro 22), che infatti ha per sottotitolo «Una storia del Novecento. Da Kim a Le Carré», analisi della più tipica e della più romantica delle invenzioni narrative prodotte dall'Occidente nel cosiddetto secolo breve, lì dove Bene e Male si fronteggiano e sono perfettamente riconoscibili, ma il primo ha il vantaggio di essere lui il narratore nonché il protagonista e al secondo non resta che la parte del vilain, del cattivo senza speranze, se non del farabutto vero e proprio. Scomparso quest'ultimo, è venuta meno, nota Gabutti, persino «l'ombra di una plausibile dimensione metafisica da cui ricavare un normale repertorio romanzesco di tradimenti, vocazioni e fedeltà. Sta di fatto che gli autori di spy stories stentano a cucire una qualunque trama intorno alle guerre palesi e segrete del nuovo millennio». Ci si è lasciati il Novecento dietro le spalle e con esso la Grande Avventura e insomma il Grande Gioco che la rendeva possibile, e davanti c'è solo il Deserto dei Tartari, un lungo impasse di cui nessuno è in grado di percepire il senso.

Costruito con il consueto gusto affabulatorio e la sterminata competenza che lo rende possibile, dal fumetto al cinema, alla musica, dal realismo alla fantascienza, dalla letteratura alta a quella bassa, Segretissimo di Gabutti è dunque un ripasso novecentesco di tutto ciò che ne ha costituito l'epica, meglio, il suo potenziamento epico. Perché poi le cosiddette spy stories più che a fare pomposamente controinformazione preferiscono l'allegoria (e qualche volta la caricatura). Curiosamente, per quella che si può definire una vera e propria ironia della storia, hanno un inizio e una fine nello stesso punto geografico e geopolitico. Se infatti è il Kim di Kipling a tenere a battesimo il genere in quel Kyber pass che unisce l'india all'Afghanistan, è Casa Russia di John Le Carré a mettervi la parola fine una volta che, sempre in Afghanistan, l'Armata rossa è andata incontro al suo disastro e la Russia improvvisamente è apparsa per quello che realmente è: «Un immenso villaggio Potemkin: rampe di cartapesta, missili di latta, carri armati in cartongesso come ai tempi di Caterina di Russia ... Un tarocco militare, oltre che economico, sociale e politico».

Nell'arco di tempo che separa l'inizio e la fine del Grande Gioco, c'è stato anche il tempo e/o la necessità di perfezionare e in qualche modo ritoccare l'immagine stessa della spia, spogliandola degli elementi più negativi, cinismo e avidità, nessuna legge se non il proprio tornaconto. «Un momento prima è il malamente che ha scelto uno sporco e triste mestiere». Un momento dopo è l'agente segreto al servizio del proprio Paese e poi sempre più l'eroe al servizio della giusta causa.

In questo passaggio c'è anche tutta la modernità novecentesca rispetto a un Ottocento che in materia ha ancora idee romanticamente confuse e dove il «romanzo sociale» e il «romanzo d'avventura» nascono insieme e insieme convivono. D'altra parte, è proprio l'Ottocento a creare, letterariamente parlando, la rivoluzione, intrecciando fra loro socialismo, psicologia e avventura. I demoni di Dostoevskij in fondo è tutto questo e il suo Verchovenskij è ispirato a quel Necaev che è «il terrorista archetipo, modello di ogni populista armato». E si deve essere d'accordo con Marx quando osserva che un po' tutta la Russia rivoluzionaria dell'epoca «era un miscuglio di personaggi ricavati dal Conte di Montecristo di Dumas padre, dai Masnadieri di Schiller e dai Misteri di Parigi di Sue...».

L'Ottocento è insomma psicopatologia del terrorismo e almeno fino al caso Dreyfus e a Mata Hari spie e terroristi si scambiano le parti in un balletto in cui i maestri di danza sono però gli stessi e tutti contribuiscono, anche loro malgrado, anche senza saperlo, alla necessità di un grande disordine grazie al quale poter invocare e perpetuare un ordine più grande... Sotto questo profilo, il Kim di Kipling è l'annuncio di una nuova era: perché Kim ama sì l'avventura, e quindi il rischio, il travestimento, l'inganno e anche la morte del nemico data di propria mano, ma la mette al servizio di un bene superiore che la giustifica e insieme la redime.

Il suo passaggio da cencioso vagabondo a studente di college è del resto la spia di ciò che si sta preparando: «Invece che nei ranghi dell'esercito e nei bazar gli agenti vengono reclutati nelle università, nelle case editrici e nei club privati intorno a Piccadilly Circus. Professori di lingue orientali, studiosi di letteratura e romanzieri (soprattutto romanzieri) sono promossi a combattenti segreti. Sembra esserci, a occhio, una ragione. Chi meglio di un romanziere, infatti, per vivere avventure da romanzo».

Nel suo Storia della baronessa Budberg, la scrittrice russa Nina Berberova si è divertita a enumerare tutti quegli scrittori d'oltre Manica che, come per caso, si ritrovarono nella Pietroburgo di inizio secolo: da Maugham a Walpole, da Chesterton a Bennet, a Buchanan (che come altro mestiere faceva l'ambasciatore...) a Galsworthy... Come osserva Gabutti, «fino a un attimo prima c'eran molti modi di raccontare la storia. D'un tratto, dopo un secolo di pace, in Europa ci sono soltanto racconti di guerre, vuoi guerreggiate, vuoi combattute nell'ombra. E' cambiata la percezione del mondo. Romanzieri e spie camminano fianco a fianco per tutto il Novecento».

L'eccesso di scrittori inglesi, va da sé, spiega anche l'importanza, sempre letterariamente parlando, dei servizi segreti britannici. Quando metti insieme George Smiley e James Bond non c'è spazio per un americano come «il nostro agente Flint». E si può disinvoltamente dimenticare che una parte ragguardevole dell'MI5 londinese, da Philby a Burgess, a Blunt, a Mac Lean prendeva ordini da Mosca...

Costruito con divertita sapienza, il libro di Gabutti è per certi versi un «epitaffio per la spia» così come l'abbiamo conosciuta, così come il mondo che si è trovato intorno l'aveva conosciuta e insieme costruita.

Naturalmente, anche il XXI secolo continuerà ad averla fra i piedi, ma, come dicevamo all'inizio, quello stampo originale e occidentale è andato in pezzi e non si capisce bene di che forma e di che materia sarà lo stampo nuovo. Perché se è vero che non c'è più un unico impero del male all'altezza della situazione, non è che l'impero del bene sia messo meglio.

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