Il motivo per cui non bisogna intervistare Marco Drago sul suo ultimo romanzo, Innamorato (Bollati Boringhieri, pagg. 190, euro 16), è che dell'unica domanda che verrebbe la tentazione di fargli non vogliamo sapere la risposta: «Questa storia è vera?» o, detto in altre eterne parole «Il protagonista sei tu?». Si può pensare che in tempi di autofiction spinta, in cui mettere sul tavolo i propri visceri è una delle tecniche narrative che si insegnano nelle scuole di scrittura, questa domanda sia banale, anacronistica, irrilevante: a chi importa che il ragazzo che si sta sputtanando sia l'autore o qualcun altro? Importa eccome: importa perché la risposta creerebbe un bivio e il bivio impone una scelta e invece fino all'ultima pagina si oscilla, che meraviglia, da un'opzione all'altra, nella totale libertà di identificazione o idealizzazione, filosofeggiare o psicologizzare, andare in paranoia o riderci su. Non vogliamo la risposta: se Drago è Madame Bovary, è un eroe dei nostri tempi e se non lo è, il protagonista è soltanto un archetipo. Vuoi mettere?
Passiamo alla storia. Nel promuovere il libro, la parola che ricorre più spesso è «ossessione». Pungolo, chiodo fisso, nodo del rimuginare, altarino nel cuore: il primo amore. In 91 capitoletti e poco meno di 200 pagine, Marco Drago, classe 1967, scrittore, conduttore radiofonico, traduttore e fondatore della rivista letteraria Maltese narrazioni, si rende sexy come soltanto un uomo innamorato duro sa rendersi, nel precisare che lei se la sogna ancora, nel confessare che per quattro anni dopo averla conosciuta al sesso nemmeno pensa, nel rievocare quella volta che venne nelle mutande. Drago prende la fetta di pane che è il lettore e lentamente, una spalmata di dedizione sentimentale dopo l'altra, la rende pronta a precipitare sul pavimento. Dalla parte del sentimento, naturalmente. Tutto inizia a quindici anni, perché quindici anni - per le femmine quattordici, sia chiaro, alcune anche tredici - è l'età in cui la cosa ti prende e ti porta via e se non la capisci - e Drago dichiaratamente, orgogliosamente, non la capisce - ci resti sotto per sempre: «Nella benedetta primavera del 1982, a marzo, la vedo per caso nella classe dell'altra prima, l'altra sezione; ho cominciato il liceo a settembre e da settembre a marzo non l'ho mai notata, ma un mattino la vedo e lei vede me, io sono sulla soglia della porta della sua classe, lei è accanto al suo banco, sta in piedi, in mezzo alle altre, la vedo e non so ancora spiegarmi adesso che cosa vedo o perché lo vedo come lo vedo, la vedo e mi sento completamente ribaltato». Ecco, la frittata è fatta.
Il libro qui è iniziato da poche pagine e sappiamo subito che Drago è un grande, per due motivi. Il primo è che da 0 a 99 anni ci ha già tutti in pugno: ha azzerato la dualità del tempo scrittore-lettore, storia narrata-divano: siamo lì, in quella classe e nell'altra, saltabecchiamo da una porta della sezione all'altra, agiamo addirittura, vorremmo essere il suo migliore amico e la migliore amica di lei, ma anche la scolorina dentro l'astuccio, per goderci tutti i pov, come si dice oggi, che poi sarebbero i punti di vista. Questo fa di Innamorato un libro sul tempo e su come il tempo non ci cambia. Drago difende fino alla fine il flusso interiore: se non cambia qualcosa lì, siamo un Io diviso, abbiamo 55 anni, ma quel 55 ce lo dobbiamo ripetere ogni minuto, perché non ci sembra mai vero. Il secondo motivo è che Drago sconfigge già a pagina due la maledizione del contemporaneo, ovvero l'autoreferenzialità demente (dove demente non è insulto, ma osservazione clinica). L'autore stesso la evoca: «Chissà chi leggerà questa roba, a chi avrò il coraggio di far leggere questa storiella soltanto mia? (...) Se dovesse mai uscirne un libro disponibile al pubblico immagino che ci sarà chi, sbuffando, si maledirà per aver abboccato a qualche consiglio o recensione e troverà il modo di maledire anche tutta la narrativa italiana contemporanea al completo, la disdicevole narrativa ombelicale...». Niente ombelico, qui: vediamo perché.
La primavera del 1982, tanto per cominciare, non contiene soltanto lei. Coesistono con la visione della donna angelicata milioni di altre cose a cui badare: la musica, gli amici, il campo sportivo, i giri in moto sempre seduto dietro, le letture (diventeranno bulimiche un paio d'anni dopo), il Subbuteo e persino una mezza fidanzatina che il Nostro aveva già e che in generale in tutto il volume fa un po' la figura del pesce lesso, dell'elemento di sfondo, dell'accessorio, insomma proprio l'aspetto che tutta la nostra vita prende nel ricordo quando a condire l'insalata non c'era l'amore. L'unicità di questo romanzo è proprio la sua antiombelicalità, che lo rende diario che non abbiamo mai avuto il tempo di scrivere per chi ha l'età di Drago oggi; fratellanza maggiore per chi ha quarant'anni di meno; pacca sulla spalla e «Cosa sarà/ che ci fa lasciare la bicicletta sul muro/ e camminare la sera con un amico» per chi ci sta sotto da qui all'eternità. Non a caso all'inizio del capitoletto 14 spunta l'omaggio a un punto di riferimento, il remake dell'incipit di un classico del tema, Seminario sulla gioventù di Busi: «Cosa c'è di autentico negli anni dell'adolescenza... cosa resta di reale una volta sbucciate via le pose, le invenzioni macabre, le nozioni origliate, le travagliate situazioni in progress, cosa resta, qual è il nucleo, dopo tutto, di quegli anni?». Fortunati, i lettori del Drago innamorato, perché non capiranno nemmeno stavolta e quindi potranno continuare a sentirsi inesperti, timidi, impacciati e quindi vivi.
La tecnica narrativa è il flusso di coscienza - tecnica vecchia quanto la letteratura, ma mica tutti sanno usarla comme il faut perché sembrino affari propri, sì, ma non pettegolezzi. Il trucco di Drago è che la storia d'amore dall'82 viene spinta avanti da Storia e Geografia. I riferimenti culturali qui sono tutti nostri, che non significa nostrani, perché la cultura del Drago teenager è superglobal, bensì visti con lo sguardo di un ragazzo italiano di quegli anni, roba che Il tempo delle mele impallidisce una volta per tutte. Si parte con i mondiali di calcio in Spagna e il supplemento del Guerin Sportivo. Si va avanti con la politica e la dichiarazione sperticata e sincera che non abbia nessun peso: niente Marx, niente Marcuse, niente libretto rosso di Mao, fino, ovviamente, a Pannella. Si procede con la musica, che in questo romanzo fa emozionare come la madeleine: la new wave (che è la sua scoperta e anche quella dell'amico di otto anni più grande che lo prende e lo porta via), Duran Duran e Cure, Weather Report e Frank Zappa (uno dei riferimenti più citati del libro, insieme a Diane Keaton) fino alla svolta, la conduzione di un programma musicale in radio, «una radio che più locale non si può, ma che appunto per il suo essere locale è ascoltata da tutti». Il programma si chiama «Joe's Garage, la musica più bella del mondo» e, che ci interessi o no la battaglia radio locali contro network o musica contro pubblicità, lo leggiamo come una conquista personale: siamo in radio, siamo l'avanguardia in diretta, siamo situazionisti. E alla fine la verità di Innamorato sta tutta in una riga: «Sono uno scrittore, un cantante e speaker radiofonico oltraggioso, sono un cazzo di artista».
Soltanto così si trova il coraggio di presentarsi, oltre che al proprio grande amore, ai lettori: vincenti perché se stessi, perdenti perché se stessi. E questo usando la parola «generazione» due volte in tutto il romanzo.
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