"Dirigo il grande Musorgskij: sbagliato punire l'arte russa"

Il maestro Esa-Pekka Salonen inaugura il "Festival di Pasqua" a Salisburgo. "Gergiev? Non ci sentiamo più"

"Dirigo il grande Musorgskij: sbagliato punire l'arte russa"

È Esa-Pekka Salonen il leader massimo del Festival di Pasqua di Salisburgo 2025, al via sabato 12 fino al 21 aprile, per inciso, il più chic dei tre festival salisburghesi. Di Helsinki, classe 1958, pure attivo compositore, Salonen brilla nella rosa degli Jannik Sinner o Federica Brignone della direzione d'orchestra. Zitto zitto, da buon nordico, ha tessuto una carriera dove nulla manca, distribuendola salomonicamente fra vecchio e nuovo mondo, con conduzioni stabili nei Paesi scandinavi e a Londra, mentre Oltreoceano ha dominato la scena di Los Angeles e poi di San Francisco dove però non prolungherà il contratto, anzi a giugno si congeda dalla SF Symphony alla quale lascia in dote, fra l'altro, un Grammy appena conquistato con Adriana Mater, per la regia di Peter Sellars. Tornerà in Italia su invito della Scala, ma a dire il vero, tanti nostri enti lo reclamano.

Salonen inaugura il Festival austriaco, che per questa edizione lo vede artista residente, con Kovancina di Musorgskij, nella buca d'orchestra c'è la Sinfonica della Radio Finlandese, la regia è di Simon McBurney ed il cast è da Festival di Pasqua. Il titolo prescelto incute paura al solo pronunciarlo: il cina finale sta per faccenda/congiura dei principi Chovanskij, assetati di potere.

Intravede la Russia d'oggi in quest'affresco della Mosca di fine Seicento?

«Basta cambiare alcuni nomi e ti ritrovi nella contemporaneità».

A chi pensa?

«Sostituendo Chovanskij con Prigoin sembra di leggere un articolo di cronaca degli ultimi tempi».

Per il resto?

«Tutto ruota attorno a quattro uomini della pietra che manipolano le persone finendo però per essere usati loro stessi. Marva è il personaggio più intrigante della vicenda, almeno lei muore da persona libera».

C'è chi bandisce l'arte e gli artisti russi. Ma lei, (benché) finlandese, impernia il festival su Musorgskij, oltre che su Mahler. Una sfida?

«Dobbiamo essere realisti. È un delitto rinunciare alle opere di Cajkovskij, Rimsky Korsakov, Dostoevskij o Tolstoj. Cancellare la loro arte vuol dire perdere qualcosa di grandioso. Altra cosa è il dovere di fermare e punire Putin e il suo regime aggressivo, altra cosa è aiutare gli ucraini che meriterebbero di vincere. Detto questo, non voglio perdermi la grande arte russa, è un patrimonio dell'umanità».

Con il direttore Gergiev per anni avete lavorato fianco a fianco al Baltic Sea Festival. Quando vi siete sentiti l'ultima volta?

«Nel gennaio del 2022. Gergiev mi chiamò da Vienna per augurarmi buon anno. In quei giorni le truppe russe presidiavano i confini: quanto fummo ingenui, noi tutti, a credere che nulla sarebbe accaduto. Con Gergiev parlai a lungo. Alla fine della telefonata mi disse: Senti: il mondo sta impazzendo. Ma è il suo mondo che è diventato folle».

Non vi siete più sentiti?

«No, e non saprei dire il perché. Mi chiedo solo per quale ragione a Palmira diresse il concerto della vittoria, tra le macerie di un gioiello come quella città. Vittoria di cosa? Che tristezza».

Il Baltic Sea Festival è stato l'abbraccio musicale tra i Paesi del Baltico. Ora è calata di nuovo la cortina.

«Con Gergiev iniziammo a lavorare al Bsf nel 1999, io per la Finlandia, lui per la Russia e Manfred Honeck per la Svezia. Ricordo il desiderio genuino di costruire relazioni, tutti spinti da un ingenuo ottimismo».

Usa spesso il termine «ingenuo».

«Ma sì, quel gas e petrolio a basso costo... che naïf. Oggi in Russia è cambiato il sentire, e se durante l'epoca sovietica c'era un margine di prevedibilità, adesso domina l'imprevedibile».

Non è che le cose vadano meglio negli Usa, Paese dove lavora da anni.

«Lì c'è stato un cambio drammatico. È la prima volta che il Governo Federale interferisce con tale forza nella vita culturale del Paese prendendo il controllo delle istituzioni. È stato uno shock. È difficile prefigurare cosa ci aspetti. Cosa accadrà coi fondi? La nuova amministrazione è incredibilmente produttiva in termini di regole e ordini che piovono quotidianamente. Si vive in un clima di insicurezza che ci riporta alla Grande Depressione, ma almeno allora seguì la boccata d'ossigeno del New Deal, vedi il caso - per quanto riguarda il mio settore - dell'Opera di San Francisco costruita proprio in quella epoca come risposta alla crisi. Più tardi la realizzazione dell'auditorium per l'Orchestra Sinfonica di San Francisco venne sostenuta dalla famiglia Davies. Ora scarseggiano i mecenati: e siamo in una delle città con la più alta concentrazione di miliardari del tech e finanza»

Filantropia e mecenatismo sono cambiati negli Usa.

«Prima erano assicurati da famiglie che supportavano l'arte di generazione in generazione. Ora l'arte è sparita dalle scuole. I nuovi ricchi sostengono ospedali e attività sociali ma non la classica, e sa perché?

Dica.

«Perché loro, che sono l'élite, puntano l'indice contro ciò che è élitario, ma il paradosso è che negli Usa la classica e l'opera sono frequentate da gente normalissima, che va ai concerti in jeans, che non vive quest'arte come un rito per privilegiati. Tutto questo è l'effetto di un deterioramento generale, che parte dalle infrastrutture e al quale hanno contribuito sia le amministrazioni dei Democratici che dei Repubblicani.

In compenso nella piccola Finlandia avete scuole spettacolari e una concentrazione di direttori d'orchestra da primati.

«Abbiamo un ottimo sistema, vero. La musica è insegnata in tutti i i gradi di scuola. Ai giovani direttori d'orchestra, poi, si offrono opportunità di crescita, si investe su di loro.

Inoltre c'è una bella collaborazione intergenerazionale, gli adulti si sentono in dovere di aiutare i giovani. E in generale, anziché competere l'uno contro l'altro, lavoriamo assieme per costruire un ambiente musicale di alto livello».

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