Discreti e griffati, ecco i signori del libro

Chi sono, come lavorano, quanto pesano gli agenti letterari: sono loro a decidere i destini degli scrittori. C’è chi "marchia" anche gli articoli dei suoi clienti, chi diffida degli esordienti e chi degli editori "pecoroni"

Guardando gli indirizzi dei loro uffici (centrali e in caseggiati d’epoca) ci si fa l’idea che gli agenti letterari siano persone stufe di stare nei palazzoni periferici dell’editoria e abbastanza potenti da mettersi in proprio (nelle ultime settimane si sarebbe aggiunta alla schiera Rosaria Carpinelli, già protagonista di un rumoroso divorzio da Rizzoli per passare alla Fandango di Baricco, dalla quale, si dice sia uscita per rappresentare scrittori come Filippo Timi e Serena Vitale). Del resto il successo della narrativa italiana, da Enrico Brizzi in poi, ha aperto prospettive economiche (anche se tutto questo «fervore da opera prima» non favorisce un mestiere da cui è escluso il talent scounting).

Per vari motivi l’agente letterario, figura poco diffusa in Italia (l’Ali, fondata nel 1898, è una delle più antiche agenzie al mondo, ma fino agli anni ’90 in pratica esisteva solo quella), sta prendendo sempre più piede. Secondo l’uso anglosassone il «marchio» compare sui libri. E pure nei pezzi giornalistici (vedi Roberto Santachiara, che “controfirma” in calce gli articoli di Roberto Saviano). Novità sgradita a Gian Paolo Serino, critico letterario e direttore della rivista Satisfiction. Per altri aspetti invece non ci si è adeguati: solo un’agenzia (Grandi e Associati) ha la client list - l’elenco autori - accessibile.

Santachiara vive nella campagna pavese, da cui parte alla volta di Milano con le proposte (ha diversi giallisti nel suo “portafoglio”, compreso Carlo Lucarelli, e tra gli stranieri Stephen King). Non dà interviste: «Preferirei che il mio lavoro avesse il minimo di pubblicità». Proviamo a stuzzicarlo con la polemica di Serino e l’avvertiamo: comunque parleremo di lei. «La prego non mi citi. Tutti i miei autori, non solo Roberto Saviano, quando escono con articoli sui giornali hanno il copyright. Di quello che pensano, addetti ai lavori e non, me ne infischio».

Vicki Satlow, nella signorile via Alberto da Giussano a Milano, non commenta ma sembra dar ragione a Serino. Quando le chiedo chi sono i suoi autori dice «Non lo rivelo mai». Lo studio è fitto di libri in varie lingue di Susanna Tamaro, incluso Dlija tolka golos (Per voce sola, in russo). Ha avuto anche Andrea De Carlo. Per quanto diplomatica, Vicki ha una franchezza americana nel lamentarsi degli editori: «Non mi piace che lo stesso libro, prima rifiutato, se va in classifica sul New York Times diventa indispensabile. Se lo scegli perché è piaciuto ad altri non sei un editore, sei una pecora. Con il mio lavoro non potrei mai essere single: non potrei mai accettare altri rifiuti». Del mercato internazionale dice: «Se non sei autore di lingua inglese sei poco appetibile. Difficile vivere di scrittura in Italia». È un male? «Se guadagni puoi scrivere di giorno e non di notte, hai più tempo per documentarti».

La Ali, a due passi dal Duomo, è diretta da Donatella Barbieri, che viene da Frassinelli e Sperling, ha rilevato l’agenzia dal figlio del mitico Erich Linder e poi ha ceduto il 65% a Chiara Boroli. «C’era un rapporto personale tra editore e scrittore prima. L’editoria è cambiata come è cambiata l’impresa in generale. Noi seguiamo un libro in tutti i suoi aspetti, anche dopo la pubblicazione. Gli scrittori hanno alti e bassi. Bisogna capire quando è il momento di rilanciarli». Sulla sua scrivania La vita bassa, il libro di uno che è sulla breccia da mezzo secolo, Alberto Arbasino. I pagamenti li ricevete voi o l’autore? «L’editore ci comunica la cifra, controlliamo che sia giusta, poi che il pagamento corrisponda e infine, detratta la nostra percentuale, giriamo il resto all’autore». Le commissioni sono sul 10 per cento. La Ali fa servizio lettura manoscritti, è interessata a nuovi autori e si sta rinnovando.

Non ha rimpianti neanche Stefano Tettamanti, amministratore delegato Grandi e Associati (sede in un bel cortile, zona San Vittore), un passato da librario. Pensa anzi che la situazione sia migliore oggi che ci sono gli agenti: «Sono gli editori che spesso dicono agli autori, quando pubblicano: ma perché non ti trovi un agente?». Come è cambiato il mestiere? È più trasversale e creativo? «Spesso siamo i primi a leggere la nuova opera di uno scrittore. Curiamo diversi aspetti: avere rapporti con un editore vuol dire più avere rapporti con il redattore, l’ufficio contratti, il grafico. L'agente è il tramite di tutte queste cose e lo scrittore. Una volta c’erano gli editori in persona, oggi altre figure di riferimento di altissimo livello: Antonio Franchini in Mondadori, Oliviero Ponte di Pino in Garzanti, Luigi Brioschi a Guanda». Si campa di sola scrittura? «Sconsigliamo di dedicarsi solo alla scrittura». Perché? «Perché poi di cosa scrivi?». Fate servizio lettura manoscritti? «Sì ma teniamo a far sapere che è separato dalle altre attività dell’agenzia». Anche se capita un capolavoro? «Anche se capita un capolavoro non è compito nostro trovare un editore».

Dopo i successi di Enrico Brizzi, gli editori prestano attenzione agli esordienti, ma non è che si svenino in anticipi. Lo dice Silvia Brunelli, fondatrice di Nabu, sede a Firenze: «Non siamo in Inghilterra dove si fanno le aste». Quanto può spuntare un esordiente di anticipo? «Da zero a 8mila euro». E per quelli già affermati si fanno le aste? «Il gioco avviene in un modo più subdolo, meno alla luce del sole».
Marco Vigevani, dell’omonima agenzia in via Cappuccio (vicino al teatro Litta), ha diversi giornalisti (Giorgio Bocca, Riccardo Chiaberge, Mario Cervi). Gli chiedo che pensa della decisione di Santachiara di mettere il marchio negli articoli: «Noi lo facciamo solo sui libri, dopo avere visto lui. Sui giornali no. Che c’è niente di male? Abbiamo il piacere di comunicare che dietro a un libro c’è il nostro lavoro. Quand’è uscito Le benevole, ero a Francoforte a cena con una funzionaria di Gallimard, risentita perché Jonathan Littell ha un agente, Andrew Nurnberg. In Francia non usa». Ma Littell è di genitori americani. «La realtà è che Gallimard non ha fatto un grande investimento iniziale su Le Benevole. La prima edizione è stata di 8mila copie». Da noi che cifre che girano intorno a un libro? «Un italiano che vende discretamente fa sulle 25mila copie e prende il 12-15 per cento del prezzo di copertina (mettiamo 18 euro): più o meno 2,5 euro. Per vivere bene occorre vendere 100mila copie. Sono 250mila euro lordi l’anno». In quanti le vendono? «Chi entra in classifica. Per esempio il nostro Diego De Silva, con Non avevo capito niente. Poi i soliti nomi: Camilleri, Carofiglio...». Cosa smuove la classifica? «La tivù: Le invasioni barbariche, Che tempo che fa». La ricerca dell’esordiente di successo a tutti i costi non crea problemi? «Li crea agli scrittori già affermati che non vanno oltre le 20-30mila copie. Ma anche chi fa il botto difficilmente riesce a ripetersi, vedi caso Tamaro. A parte quelli di genere. I giallisti: Faletti, Camilleri».
Dall’altra parte della barricata, anche se c’è qualche gola profonda che spara sugli agenti («Solo alcuni sanno fare il loro mestiere, gli altri sparano cifre troppo alte», «Perché farsi spennare da un agente?»), gli editori guardano con favore gli agenti.

Matteo Codignola, editor di Adelphi, dice: «È meglio ricorrere all’intermediazione di un agente. Tutto avviene in modo più professionale». Anche a lui la polemica di Serino appare un vezzo alla francese: «Mi tocca prendere le difese degli agenti, guarda un po’ dove siamo arrivati».

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