Donne schiave di ndrangheta. Costrette per educazione, paura, regole mafiose, a mettere al mondo futuri delinquenti e a stare zitte, al loro posto, ubbidire e servire. E il racconto di tre di loro che, per necessità o per coraggio, si sono ribellate, sono fuggite e hanno collaborato con i magistrati. Questa è The Good Mothers, la serie disponibile da oggi su Disney+, premiata al Festival di Berlino, che ha il merito di portare l'attenzione su storie vere e poco note. Basata sul libro del giornalista Alex Perry, si focalizza - e questo è l'aspetto più importante - sul punto di vista femminile, su come viene vissuta la mafia calabrese, la più pericolosa e impenetrabile del mondo, dalle donne che ne fanno parte. Delle tre vicende raccontate la più conosciuta è quella di Lea Garofalo (interpretata da Micaela Ramazzotti), la prima vera testimone di ndrangheta che cercò di ribellarsi alla sua famiglia soprattutto per salvare la figlia Denise (nel ruolo Gaia Girace) da un destino segnato. Entrata e uscita più volte dal programma di protezione, braccata dai familiari, con un rapporto complicato con i magistrati che la seguivano, alla fine cercò di venire a patti con il compagno Carlo Cosco, ma venne uccisa da lui che, per i codici mafiosi, non poteva «perdonare» il tradimento. La denuncia della figlia poi portò allo storico processo contro i Cosco a Milano.
In parallelo scorrono anche la vita di Giuseppina Pesce (con il volto di Valentina Bellè) e quella di Maria Concetta Cacciola (interpretata da Simona Distefano), sua amica. «Vengono convinte a collaborare con la giustizia da una magistrata che capisce che per abbattere i clan bisogna puntare sulle loro donne e sul loro desiderio di libertà, per sé e per i figli», spiega la regista Elisa Amoruso. Entrambe fatte sposare giovanissime, con tre figli e mariti che le picchiano: la prima, coinvolta nei traffici delinquenziali della famiglia, decide di parlare perché, arrestata con l'amante, sa che non sarà mai perdonata. Ora vive protetta con i suoi figli. La seconda è morta dopo aver ingerito acido muriatico, una fine che i familiari tentarono di spacciare per suicidio.
«Questo mondo patriarcale raccontato da Alex Perry sembra vecchio di secoli - aggiunge la regista - e invece le vicende risalgono solo a un decennio fa. La serie dà voce a queste donne sepolte e lo fa senza glorificare la violenza come si è visto, invece, in altre fiction». Ed è anche un messaggio di speranza, come riassume Micaela Ramazzotti: «È una serie potentissima, spero che riesca a dare a tante altre donne il coraggio di ribellarsi a certi ambienti feroci in cui nascono e crescono». E, infatti, oggi l'obiettivo della Dna (Direzione Antimafia) e dell'associazione Libera (di Don Ciotti) è quello di arrivare a una legge che protegga tutte le donne che decidono di lasciare la mafia, anche se non denunciano fatti e familiari. In modo da sottrarre anche i figli ai delinquenti.
«La pm capisce che è arrivato il momento di agire sulle donne - spiega Barbara Chichiarelli che interpreta la magistrata (chiamata nella serie Anna Colace) che decapita la famiglia Pesce - perché intuisce che la paura degli ndranghetisti non è tanto che rivelino qualcosa di importante ai magistrati ma che diventino un esempio per le altre». Dopo loro tre - e quello che è capitato loro - sono state poche le collaborazioni femminili con lo Stato, ma per fortuna non si sono interrotte del tutto.
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