Una volta era la paciosa rotondità delle
veneri preistoriche, simbolo di sognata opulenza e fertilità, oppure
la trabordante bontà del Buddha Maitreya di certe statuette cinesi, un
vecchio monaco che viene rappresentato quasi sempre con il budai ,
una borsa di pelle piena di cibo per i poveri. Oppure ancora la soave
dolcezza tondotta del nostro Babbo Natale, che nessuno avrebbe mai
accusato, a vanvera, di essere sovrappeso (se no addio regali).
Poi invece è partita la guerra alla pancia, si è diffusa la percezione
del sovrappeso come una malattia, anzi peggio: come una pandemia
inarrestabile, un attacco micidiale ai sistemi sanitari nazionali e
all’integrità stessa degli Stati, consentita dalle cattive abitudini e
dal lassismo dei singoli. Eccoci allora proiettati nell’oggi dei
forzati della dieta, del culto dei corpi che diventano statuari a
colpi di bisturi, nelle campagnepresidenzialicapitanate da Michelle
Obama che ha detto agli americani: «È arrivato il momento della verità
per il nostro Paese; è ora che ci svegliamo tutti. È ora di essere
onesti con noi stessi su come siamo arrivati a questo...». Una
mobilitazione contro il terrorismo? No la campagna «Let’s move » per
mettere a dieta i ragazzini americani troppo ciccioidi. Per capire
come da una blanda e gioiosa tolleranza verso i grassi si è giunti a
questo clima di «caccia spietata» viene utile il breve saggio di Sander
L. Gilman appena pubblicato da Il Mulino (pagg. 190, euro 16) ovvero La strana storia dell’obesità .
Gilman parla apertamente di psicosi per descrivere l’attuale fenomeno
di criminalizzazione delle persone in sovrappeso (e già nella parola
sovrappeso c’è una sfumatura negativa, in fondo potremmo considerarli
solo dei ragazzoni un po’ robusti) ma ci dimostra che i germi da cui
il fenomeno ha preso origine arrivano da lontano.
Perché se la pandemia è il tipico
terrore di inzio XXI secolo, e niente è meglio della Globesità (obesità
globale) per scatenare campagne mediche e politiche in cui accusare
il ricco Occidente dell’ennesima efferatezza morale ( siamo grassi
perché ricchi e pigri), le radici dell’odio verso i grassi si
dipanano molto in là nel tempo e si intrecciano a ragionamenti di
varia natura. C’è il peccato di gola che tanto preoccupava
Sant’Agostino: «In mezzo a codeste tentazioni io sostengo una lotta
quotidiana contro la concupiscenza del mangiare e del bere: non è
questa tal cosa che si possa risolvere di
tagliar via e di non più ritornarvi come è stato possibile per la
consuetudine sessuale». C’è il darwinismo ottocentesco e l’esaltazione
delle virtù borghesi attive che vede nella grassezza una forma di
pigrizia, stupida e improduttiva. E in questo caso secondo la
ricostruzione di Gilman è emblematica la descrizione del personaggio
di Joe (il giovane servo del signor Wardle nel Circolo Pickwick )
fatta da Dickens: «Non mostrava sul volto la minima traccia di
allegria, nulla se non i segni inconfondibili di una prolungata
supernutrizione ». Insomma nell’Ottocento
chi è grasso inizia a diventare una creatura obsoleta, primitiva e quasi
sub-umana, degna di essere bersagliata sulla base della «moderna »
fisiognomica. Anche la scienza medica inizio a metterci del suo,
lanciando allarmi terroristici sulla salute dei bambini: «La capacità
suicida di ingestione del bambino moderno è il retaggio delle
abitudini del cavernicolo che camminava carponi» (così la rivista
vittoriana The nineteenth Century ).
Da lì l’odio ideologico verso i
grassi, che è passato anche attraverso la fase degli «ebrei popolo
insalubre di diabetici », è arrivato dritto dritto sino a noi per
ingigantirsi a psicosi, grazie all’odierno sistema dei media e alla
tendenza, tutta moderna, alla salute di tutti a tutti i costi.
E allora alla domanda, legittima, «ma stiamo davvero diventando in generale più grassi, almeno in Occidente? » Gilman risponde in maniera interessante. La grassezza è un concetto difficile da definire ma di sicuro: «l’epidemia di obesità è solo la dimostrazione della nostra voglia di assumerci il compito donchisciottesco di controllo assoluto del nostro corpo». Non è ovviamente un incitamento a ingozzarsi di «junk food» (cibo spazzatura), come il protagonista del film-documentario Super Size Me , ma la presa d’atto che kantianamente noi vediamo la questione obesità attraverso lenti tutt’altro che obiettive, o rispettose dei diritti dei singoli. A questo va ad aggiungersi che «curare » l’obesità può trasformarsi anche in un bel business, in una fiorente industria della magrezza che però ama i grassi: «Il massimo dell’insuccesso sarebbe l’eliminazione dell’infelicità effettiva o percepita legata al peso corporeo, perché tale risultato positivo porterebbe alla morte di questa stessa industria ». Una situazione paradossale in cui a essere bulimica è soprattutto la macchina del benessere che vuol ingoiarsi tutte le differenze tra gli individui, e quindi la libertà.
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