Le dodici parole chiave per capire che Prodi non andrà molto lontano

Piccolo dizionario di prodismo
Discontinuità. Parola passepartout. Nei primi mesi di prodismo c’era da marcare la discontinuità col governo Berlusconi. Andava di moda differenziarsi su tutto: sobrietà contro tracotanza, decisioni contro negoziazioni, multilateralismo contro unilateralismo, Rai contro Mediaset, pacs contro famiglie. Chiuso il libro dei sogni e scontrato il duro macigno della realtà politica, chi s’illudeva di rivoltare l’Italia come il proprio calzino ha appeso al muro gli scarpini rivoluzionari e ha indossato le cioce del chiacchierone. Così i pasdaran della discontinuità sono: quelli che quando Giorgio Napolitano parla di riforme condivise (v. volenterosi) gli fanno da dietro le boccacce; Diliberto secondo cui l’avversario non c’è ma c’è il nemico; terzaforzisti e terzomondisti in politica estera, che non sanno di pensarla come Jacques Chirac; Fausto Bertinotti con la spilletta arcobaleno alle marce delle forze armate; i Micromeghi che invocano un berlusconiano al giorno scannato in pubblica piazza. Giganti della politica. Ci si riduce a consolarsi con la confidenza prodiana al Time Magazine: «Come evitare il collasso del governo? È semplicissimo, con lo spettro di nuove elezioni».
«Fase due». Parola indigesta. In passato utilizzata per indicare un cambio di marcia dopo il penoso passaggio della Finanziaria più impopolare della storia occidentale, per occuparsi di cose serie tipo le pensioni, Romano Prodi e gli amici comunisti l’hanno sempre vista come fumo negli occhi. Per questo fate attenzione, il suo utilizzo può indurre sfiga. L’ha pronunciata Francesco Rutelli e l’hanno beccato col sorcio in bocca di qualche tessera fantasma nella Margherita di Roma. E difatti ha corretto: «La fase due non c’è più». L’ha pronunciata Piero Fassino e sono iniziate le defezioni dai Ds, le mozioni anti-segreteria, le candidature, il regolamento della Melandri contro le modelle-grissino interpretato come un attacco alla magrezza del segretario. Tommaso Padoa-Schioppa l’ha solo timidamente evocata ed è crollato nel gradimento pubblico. Quindi, se non sentite parlare più di fase due non è per scelta politica: è per scaramanzia (v. riformista, volenterosi).
Felicità. Parola al vento. «È possibile organizzare un po’ di felicità per noi» ebbe a dire Romano Prodi il 14 marzo 2006. Seguì il solito, inquietante, sorriso sdentato di labbra sottili. Qualcuno gli fece notare che è un po’ troppo per un governo andarsi a impicciare della felicità del singolo, è un residuo totalitario. Ma lui, da cattolico dossettiano qual è e da persona priva di humour qual è pure, ha risposto con citazioni dell’imperdibile «Insieme», scritto a quattro mani con la dolce Flavia (inarrivabile, ha battuto anche la berlusconiana «Una storia italiana», perché il libro di Prodi te lo devi pure andare a comprare). Finora l’unico italiano felice del governo Prodi è Vincenzo Visco (v. radicale).
Fischi. Parola soffiata. Come dire: a Prodi non fischiano solo le orecchie. È una raffinata forma di dissenso (accostabile alla più antica pernacchia) che accompagna il governo ogni volta che un ministro mette il naso fuori dal palazzo. Si va dal fischio alla pecoraia, quattro dita ad arco e un timbro squillante, al fischio a upupa, una specie di fischio più moderato, al fischio con la bocca a culo di gallina, che riesce bene soprattutto alle siliconate (v. discontinuità).
Gazebo. Parola democratica. Sotto il gazebo l’italiano medio fa il barbecue, festeggia i battesimi e prende l’aperitivo. Dopo il seminario (v. seminario) di Orvieto sappiamo che sotto il gazebo il democratico vero fa un partito aperto (certamente all’aria aperta), mentre Massimo D’Alema vuole continuare a farci il barbecue e, qualche volta, prendere l’aperitivo.
Lenzuolata. Parola Coccolino. L’origine del termine è incerta. Pierluigi Bersani l’ha tirata fuori per indicare la vastità del suo progetto di riforme, che per adesso annoverano fondamentali decisioni sugli scontrini dei tassisti, i giornali nei supermercati e il giorno di chiusura dei parrucchieri. L’ultimo è importantissimo: l’apertura del lunedì (non contemplata nel programma dell’Unione ma stavolta Pecoraro Scanio, al grido di «acconciatura libera», non s’è lamentato) è un provvedimento che cambierà radicalmente le abitudini degli italiani, alzerà la posizione dell’Italia nel Rapporto annuale del Wall Street Journal sull’indice di libertà economica e lascerà più denaro nelle tasche dei consumatori. I più facinorosi, per esempio i giornalisti berlusconiani prezzolati e il 95% dell’opinione pubblica, l’unica lenzuolata che ricordano è la superficie dell’«Albero del Programma» con cui il ministro Giulio Santagata (del quale, dopo la performance, si sono perse le tracce) ha genialmente riassunto al vertice di Caserta i punti qualificanti dell’agile programma di governo. Dal Corriere della Sera del 13 gennaio: «Un grafico di cinque metri e 46 centimetri, in formato originale. Dieci metri e 92, invece, per chi lo stampa su carta A4 dal sito del governo. Come un platano vero, di legno, e con tutte le foglie: 1.464 (millequattrocentosessantaquattro) rettangolini di sette colori diversi, che stanno a rappresentare sette livelli diversi di lettura, ognuno dei quali contiene una voce». Il riassunto dell’«Albero» che riassumeva il programma dell’Unione sarà una collezione di cd rom interattivi acquistabile in edicola.
Radicale. Parola estrema. C’è il radicale libero, di norma s’incarna in Marco Pannella che anzitutto non viene invitato alle cene della maggioranza perché fa sempre lo sciopero della fame, e non sta bene metterlo a tavola se non mangia. Poi Mastella parla dei posti di lavoro nel Mezzogiorno e lui ti risponde che ci vuole un satyagrha e come potete capire non si intendono per niente. Così Pannella s’arrabbia e fa il pazzariello al vertice di Caserta (v. Seminario). C’è il radicale della sinistra radicale che altro che goliardia. S’è gonfiato il petto ma anche lui non la sfanga con troppa facilità: i moderati dicono che il governo è ostaggio della sinistra radicale, la sinistra della sinistra radicale dice che il governo è ostaggio dei poteri forti, i poteri forti come sempre non dicono mai niente. La sinistra radicale di provincia dice che i sinistri radicali parlamentari se sò venduti a Rosy Bindi. Franco Giordano quando ha gli incubi sogna che l’Udc entra nella maggioranza per cacciare Rifondazione.
Riformista. Parola grossa. Sono partiti lancia in resta, armati di scudi e di potenti megafoni mediatici, i riformisti. Che dovevan cambiare l’Italia in quattro e quattr’otto: liberalizza lì, privatizza qui, concorrenza su, meritocrazia giù. È bastata una Finanziaria per sderenarli e un articolo della papessa laica Barbara Spinelli per screditarli: «Il falso riformista è un rivoluzionario cool, che nel frattempo ha gustato il trasformismo o la celebrità». Sono rimasti senza casa e senza partito (v. niente che è meglio).
Seminario. Parola intellettuale. Quando Palazzo Chigi è chiuso perché fanno le pulizie, si va a litigare da qualche altra parte, a San Martino in Campo, a Orvieto, a Caserta. Il risultato è sempre lo stesso: i partecipanti sottoscrivono un comunicato in cui parlano di «convergenze» e «cammino comune» e poi corrono dai giornalisti a raccontargli quante sedie sono volate.
Strapuntino. Parola chiave. Qualcuno s’è dimenticato che il governo Prodi ha battuto ogni record nel numero di poltrone tra ministri e sottosegretari, polverizzando all'ultimo miglio gli score da prima Repubblica? Qualcuno ha dimenticato che il centrosinistra subito dopo l’11 aprile s’è cuccato tutte le prime tre cariche dello Stato in barba al principio delle garanzie per le minoranze? No, perché se l’avete dimenticato ve lo ricordiamo. Ricordatelo a Veltroni quando leziona sulla bella politica (v. discontinuità).
Vicenza. Parola magnagatti (v. discontinuità, radicale, riformista).
Volenterosi. Parola loro. Diciamolo francamente: già dal nome Daniele Capezzone e Paolo Messa avevano sbagliato, o volevano provocare, o volevano fare ammuina. «The Table of the willings», suonerebbe così il tavolo dei volenterosi all’anglosassone, ricordava troppo il demone bushista della «Coalition of the willings». Nelle 49 nazioni c’erano anche la Micronesia e le Isole Salomone, nel tavolo italiano anche Renzo Lusetti, a cui i cattivi ulivastri hanno subito revocato il permesso di chiacchierare con Sandro Bondi o Bruno Tabacci di riforme condivise (v. discontinuità). Si sono presi l’accusa di criptoberlusconismo, di collusione col nemico, di soldati scemi del neocentrismo, di volenterose mine piazzate dentro i cuscini delle poltrone di Palazzo Chigi.

Ogni tanto si ritrovano in giro per l’Italia a dire, in sostanza, che il centrosinistra fa schifo. Ogni tanto fanno proposte intelligenti, ipotizzano rivoluzioni del pubblico impiego. Non demordono. Altrimenti, che volenterosi sarebbero? (v. riformista).

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