Ogni tanto la cronaca squarcia il velo e ci lascia vedere la realtà. Abbiamo una notizia: la realtà dei giovani non si esaurisce negli ecologisti che sporcano i quadri, nei fuori corso che occupano gli atenei, nei pro-nipoti dei Sessantottini, di qualsiasi colore, impegnati nella inconsapevole parodia degli anni di piombo.
La realtà sono i ragazzi che studiano, lavorano e talvolta pregano. Come hanno sempre fatto. A questi, nessuno pensa. Nessuno crede siano realmente importanti. Sono la massa e la massa non interessa fino a quando non accade un fatto clamoroso. Il suicidio della studentessa, allo Iulm di Milano, ha colpito tutti. Una ragazza di diciannove anni si è tolta la vita perché aveva paura di aver fallito, di non essere stata all'altezza delle proprie aspettative. È l'unico motivo? In realtà, qualcosa ci dice che l'intera società sia responsabile. Forse cuciamo addosso ai ragazzi panni che non appartengono loro. Forse non siamo capaci di fornire una prospettiva diversa dal successo. Quanti danni hanno provocato i like su Facebook: ci hanno educato a valutare tutto in base alla popolarità. Quanto abbiamo sottovalutato l'impatto di quasi due anni scolastici vissuti nella propria cameretta? Forse abbiamo dimenticato che il no alla vita discende anche dal no a una visione (diciamolo: religiosa) che renda sacra la vita stessa. Forse, forse, forse. Quanti dubbi. Si avverte la carenza, non la mancanza, qualcuno c'è, di intellettuali interessati ai drammi comuni dei ragazzi comuni. Vengono in mente gli splendidi articoli che Giovanni Testori scrisse sulle colonne del Corriere della Sera e del Sabato. Testori, nato cento anni fa, sapeva cogliere l'eterno nelle storie considerate piccole soltanto da chi non era capace di comprenderle davvero. Ecco dunque la sua attenzione per i casi di suicidio, le risposte ai lettori, l'idea che proprio una vicenda atroce come il suicidio allo Iulm dovesse aprire un dibattito; un dibattito molto più importante delle solite scaramucce politiche.
Gli articoli di Testori, che invitiamo a riscoprire in occasione del centenario, sono pieni di storie straordinarie di ragazzi «comuni». Ma Testori sapeva che non esistono ragazzi «comuni». Ognuno è speciale. Il diavolo è numero e ci tratta come massa. Dio è Parola e ci chiama per nome. Uno a uno.
Questa attenzione per la persona, anche la più umile, spiega una doppia idiosincrasia di Testori: la sociologia e la statistica. Entrambe le discipline riducono l'uomo a numero. Sono dunque false scienze e vere espressioni della civiltà delle cose. Una testimonianza di Luca Doninelli, inoltre, fa capire quanto le pagine di nera toccassero Testori, specie se riguardavano perfetti sconosciuti: «Più volte l'abbiamo visto e sentito scoppiare in lacrime alla notizia di un crimine, di un suicidio, di un disastro naturale. Piangere per un terremoto in Irpinia? Chi erano gli irpini per lui e lui per gli irpini? Invece ecco: piangeva a dirotto. A Milano uno stupido ragazzotto drogato uccideva una bambina nel tentativo di rubarle la catenina d'oro, a Renate Brianza un ragazzino uccideva a martellate la zia presso cui viveva. Ed ecco il pianto, prima delle parole, prima di ogni luce di discorso: il pianto che era il primo, insostituibile atto d'intelligenza» (si cita da Luca Doninelli, Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro, La nave di Teseo, 2018).
Nel silenzio delle nostre case, di notte, quando nulla ci può salvare da noi stessi, ci chiediamo quale significato abbia il nostro dolore. Un dolore cieco, che non ha nome, perché è diventato un compagno fedele. La nostra condizione abituale. Il dolore diventa insopportabile se non è la premessa e la promessa della salvezza. Qualcosa lentamente muore dentro di noi ma continua a occupare la nostra anima. Qualcosa di nero e di confuso. Un rumore costante di sottofondo, pronto a esplodere quando siamo soli, e si può essere soli anche in mezzo alla folla o circondati dagli amici. Qualcosa avvelena il nostro cuore, spegne il nostro sguardo, ci rende aridi come il deserto, assetati come viandanti, troppo orgogliosi però per chiedere acqua. Ecco allora il richiamo della fede e dell'assoluto, il riconoscimento della nostra finitezza, l'umiltà di accettare la sofferenza, il capire che non ci si salva da soli. Qui nasce il legame con la comunità, sofferente come noi e bisognosa delle stesse attenzioni.
Nella Maestà della vita (Bur), dove Testori raccolse buona parte degli editoriali pubblicati tra il 1977 e il 1981, si parla di questo tipo di dolore.
Leggendolo si rimane stupefatti: dove sono finiti i corsari da prima pagina, i Testori e i Pasolini, gli Sciascia e gli Arbasino? E come speriamo di aiutare chi ha bisogno se non usciamo mai dalla stanca routine delle dispute ideologiche, spesso di un altro secolo?
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