Harriet Hume è una pianista squattrinata e bellissima, che vive nella Londra del primo dopoguerra ed è, diremmo oggi, «felicemente single», però entrambi i termini vanno spiegati: «felicemente» si riferisce al fatto che Harriet è una specie di regina delle fate, una creatura eterea e quasi magica che vede favole nascere nei giardini di Londra e interpreta ogni dettaglio della quotidianità in chiave di poesia; «single» nel senso che non è fidanzata o sposata, ma ha una relazione che dura da vent'anni con Arnold Condorex, un uomo molto diverso da lei, tranne nelle origini non benestanti. I due si definiscono «opposti», tanto lei è femminile, vaporosa e irresistibile quanto lui è prosaico e interessato solo alla carriera in politica, alla quale si dedica con ogni mezzo, convinto che il non essere nato nobile lo abbia già penalizzato abbastanza.
Il poco simpatico Condorex prova a trattare Harriet da «sgualdrinella», da «bambolina» con la testa vuota, a disprezzarla, tanto più che lei è così affettuosa nei suoi confronti... Solo che non ci riesce, non fino in fondo, perché la bella Harriet ha un dono, per Condorex un «dono infernale», quello di leggere nel pensiero dell'amato, nel bene e nel male, «nella gioia e nel dolore» si direbbe in chiesa. Del resto il loro è ben peggio di un matrimonio (lui è sposato, con una ragazza ricca). Insomma Harriet è una donna «fuori dal normale», e perciò è appropriato il titolo Quel prodigio di Harriet Hume con cui è stato tradotto, per la prima volta in italiano (da Francesca Frigerio per Fazi, che ha pubblicato anche la trilogia degli Aubrey), questo romanzo di Rebecca West che, in originale, suonava così: Harriet Hume. A London Fantasy. Effettivamente poco riproducibile in italiano, anche se rende perfettamente il tono del libro, sospeso fra una realtà «magica» e una «concreta» che arrivano a mescolarsi sempre di più; tanto che lo stesso Condorex, a un certo punto, deve ammettere: «Penso che tu sia una persona di valore dietro le apparenze. Ho il sospetto che tu sia l'incarnazione di un principio astratto (...). Sei forse l'amore? La verità? Non sei la giustizia, anche se sai essere magnanima. Sei la poesia? O la filosofia?».
Solo un insulso come Condorex, tutto preso dal suo arrivismo, potrebbe pensare di ridurre una donna come Harriet in categorie, infatti lei gli risponde: «Classificami pure... come tutto ciò che Arnold Condorex ha respinto». Però, quanto è umano l'impotente Condorex di fronte a questa donna che, leggendogli il pensiero, scopre tutte le sue malefatte politiche, i suoi tradimenti, le sue cospirazioni, le sue meschinità? Quanto è normale avere paura di ciò che ci smaschera, quanto è normale classificare per chiudere poi l'anta dell'armadio e lasciare tutto lì nascosto, illusoriamente inoffensivo. Il potere di Harriet Hume è troppo grande e, in un certo senso, è il potere della stessa West, nel suo essere scrittrice: artefice dei destini altrui sulla carta, grande lettrice del cuore umano nella realtà, fra amori celebri (da H.G. Wells a Chaplin) e reportage leggendari (da Norimberga e dalla ex Jugoslavia).
Come si è messa a nudo nei panni di Rose nella saga della Famiglia Aubrey, raccontando molto della sua infanzia e della sua vita, così in questa fantasia londinese mette in scena una specie di sogno in cui una Harriet/Rebecca/Puck inganna e rivela, incanta e nasconde, trascinando Condorex come un burattino. «Si era intromessa tra lui e il diritto di ogni essere umano di non sapere fino in fondo ciò che sta facendo». Prodigiosa e terribile, Harriet Hume.
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