Adesso che le bandiere sono state ammainate, le luci spente e il buffet della sala stampa rassettato, dobbiamo essere sinceri. Venerdì mattina, in molti, si aveva timore che alla Fiera di Roma avremmo assistito a una tre giorni di celebrazione di Silvio Berlusconi, alla declinazione scenografica della politica, alla celebrazione del leader nella fase dello «spettacolare integrato». Senza sbavature, senza intoppi, con timide concessioni all’agonismo dialettico e al dibattito congressuale. Ora sappiamo, per fortuna, che questi timori – o, per qualcuno, la speranza che fosse così – si sono rivelati in gran parte privi di fondamento.
Il post-congresso (come l’ho definito senza ironia alcuna) ha ceduto all’archeologia politica antichi rituali congressuali, ma non ha ecceduto nella sua forma americanizzante. Non è stato né congresso tradizionale, né kermesse. Ma una sintesi tra le due cose. Chi cercava gadget da ridicolizzare, è rimasto a bocca asciutta, chi si figurava un’adunata pacchiana ha dovuto cambiare canale.
Questo per la scenografia. Lo scenario politico ha invece riservato sorprese che, a ben vedere, tanto sorprese non sono. Prima notizia: il Popolo della libertà è un partito e non un semplice contenitore di raccolta della passione popolare unilateralmente riversata sul leader. Il cosiddetto «spirito del predellino», l’atto berlusconiano di pura politica carismatica, si è sciolto in un esperimento politico più ampio. Nelle stesse parole del premier, se il Pdl deve sopravvivere ai suoi fondatori, già oggi non può essere un partito carismatico, ma un partito-del-leader che integra e non nega le regole della democrazia di partito.
Seconda notizia: il Pdl non è solo Berlusconi. Esiste una vera classe dirigente, non solo Gianfranco Fini che fa storia a sé, ma anche Brunetta, Tremonti, Alemanno o Formigoni, e dietro di essa un’articolazione di «anime» che permettono al leader di non essere uomo solo al comando. Il Pdl è già andato oltre la pura meccanica di aggregazione tra i suoi soci fondatori. Non è il mero allargamento di Forza Italia. È un partito-arcipelago dove hanno fatto ingresso sensibilità culturali e politiche differenti, associazioni, centri culturali, basi necessarie per garantire il pluralismo interno e il confronto serrato tra idee, come ha chiesto Berlusconi. Come tutti i grandi partiti, ciò che conta nella competizione democratica sono il leader e il programma su cui chiede il consenso agli elettori, l’unanimità si cerca sotto elezioni e non prima, quando al contrario un partito più discute, più si confronta, più fa il suo dovere di laboratorio politico. La tre giorni congressuale ha confermato che il Pdl non è un monolite ideologico, vedi i temi etici, dove l’intervento di Gianfranco Fini mostra che la dialettica interna sarà sempre sostenuta. Il Pdl è invece capace di riconoscere la sua essenza di movimento di massa in un catalogo di parole d’ordine che sono il suo manifesto politico: patriottismo, competizione, merito, responsabilità, laicità, etica repubblicana del dovere, riforme, giustizia sociale, popolarismo, spirito costituente. Musica per le orecchie di una destra decomplessata e di un riformismo ambizioso. Berlusconi vede lungo quando afferma che il Pdl ha nel suo codice genetico il superamento del Novecento e delle categorie afone di destra, centro e sinistra. Contano il programma e il primato del fare che costituiscono l’identità politica.
Quarta notizia: il Pdl non è un partito moderato. Se si pone l’accento sulle grandi riforme istituzionali, l’amor di Patria, la modernizzazione dell’Italia, la battaglia per la rivoluzione dell’amministrazione pubblica, il contrasto duro alla crisi economica da cui far uscire una nazione rigenerata, il moderatismo è una categoria politica superata.
Quinta notizia: il Pdl produce passione politica attorno al suo progetto, la realizzazione della «terza ricostruzione» dell’Italia, dopo il Risorgimento e il secondo dopoguerra.
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