E da noi? Se capissimo che l’Italia non è soltanto arte e moda...

Dunque Alain de Benoist suona la campana a morto del grand débat sull’identità francese, lanciato da Eric Besson. E per farlo utilizza proprio le parole del ministro che il 5 gennaio ha dichiarato che «La Francia non è un popolo, né una lingua, né un territorio, né una religione, ma solo un mosaico di popoli diversi, dove non esistono Francesi di vecchio stampo ma solo Francesi meticci». Que reste-t-il, dunque della Francia di San Luigi, di Giovanna d’Arco, della Marsigliese, del «miracolo della Marna», di de Gaulle? Meno di niente. Dato che quella nazione sempre più rassomiglia a «un luogo di passaggio» o a un «nuovo Brasile» provvisto però di minori potenzialità economiche e demografiche. Parole gravi queste di de Benoist. Del resto Mona Ozouf, regina incontrastata della storiografia parigina, nel suo Composition française (Gallimard, 2009) ha voluto narrare «un’altra Francia» non più «nazionale» e «universale», ma regionale, locale, fiera dei suoi particolarismi e della sua disunità. Una «Francia diversa» che con la sua stessa esistenza mette in crisi il vecchio concetto di identità, proponendone uno nuovo basato appunto sulla sempre incompleta «composizione» delle differenze e sulla concorrenza tra le molteplici appartenenze che caratterizzano l’uomo nuovo nato dalla grande confusione delle lingue della globalizzazione.
Da noi, la risposta non pare diversa, almeno a sentire il chiacchiericcio dei poteri forti e dei salotti intellettuali. Come la Francia e più che la Francia, per essi, l’Italia deve regredire alla sua naturale dimensione di «espressione geografica» e può ritrovarsi una e indivisa solo nel made in Italy, nel «bello italiano», nelle sue città d’arte, nella buona cucina, a dispetto dei nostri padri che concepirono la stravagante idea di farne una nazione diversa da un popolo di cuochi, di portieri d’albergo, di camerieri, di bravi artigiani, di ossequiose guide turistiche. Ma se almeno per un po’ chiudessimo le nostre orecchie al salmodiare di questo mantra tibetano, se avessimo l’umiltà di ascoltare il ventre profondo del nostro Paese e la memoria del passato troveremmo forse una diversa testimonianza. Una testimonianza che rimanda ad alti momenti di coesione, come accadde nell’aurea stagione degasperiana della ricostruzione, quando l’Italia fu qualche cosa di più dello zimbello di minoranze più o meno virtuose.
Costituzionalmente poco propensi alle seduzioni della grandeur, la nostra identità non avanza catafratta di vessilli e bandiere, ma procede a passo lento ma fermo, giorno dopo giorno, nella più umile quotidianità e proprio per questo alla fine risulta più salda e più robusta di tante altre. Si assopisce ma poi si risveglia proprio nei tempi più duri, specialmente dopo le più rovinose e umilianti cadute. Basta poco in fondo per sentirsi italiani, ha scritto quel grande poeta dialettale che fu Biagio Marin nei giorni dolorosi della diaspora istriana del 1947.

Per ricordarsi di esserlo occorre soltanto il ricordo di «quella patria di tufo e di macigno, con tutti i viventi che la ricoprono di case e di tombe, perché quel paesaggio dell’anima rappresenta la nostra storia, il nostro precedente, il nostro ieri, il nostro titolo di giustificazione di fronte agli altri popoli e di fronte a Dio».

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