Un rossetto. Una parrucca albina. Lineamenti slavi e un'aria da cattivo. Mischiati da quella battuta di Mae West in «Non sono un angelo». «Quando sono buona sono molto buona, ma quando sono cattiva sono meglio». E lui, Andy Warhol, da cattivo ci è passato per davvero. E forse ancora oggi, a 24 anni suonati da una morte stupida, quell'etichetta, non se l'è ancora tolta di torno. E il beneficio del dubbio, al lettore non disattento, che si sia iniettato il sapere e il sapore di Warhol in vene cerebrali appassionate di Pop art e Brillo boxes, di Campbell soup cans e Marylin di tutti i colori, ebbene, al lettore non disattento il dubbio che Warhol non sia quel cattivo tanto reclamizzato viene dalla biografia più autorevole dell'artista, «Andy Warhol» (Odoya, pp. 416, euro 20), ristampato in italiano dopo lungo digiuno.
Victor Bockris, autore di questo eccellente profilo storico, artistico, cinematografico con ampi spaccati sulla New York degli ultimi settant'anni, è uno che la Factory l'ha vissuta in prima persona. E ne ha percepito umori e sensazioni. Oggi forse è difficile comprenderne appieno la cifra trasgressiva, perché solo chi ha vissuto gli anni Sessanta può ricordare quale valenza e quale condanna capitavano sul capo di chi confessasse la propria omosessualità. Giudizi che oggi ci sono estranei. Perfino quasi innaturali. E nella Factory non era questa l'unica caratteristica di molti personaggi. C'erano travestiti, trans, tossici, psicopatici e altro non perfettamente catalogabile. Tutto quanto insomma facesse tendenza.
E pure la New York del mitici Sixties storceva il naso davanti a quell'umanità fatta di disperati in cerca di un riscatto. E sognavano di raggiungerlo a rimorchio di un genio dell'arte che non confermò le sue capacità dietro una macchina da presa. Warhol non si drogava e non incoraggiava le droghe pur tollerando l'uso che se ne faceva all'interno della Factory. Warhol era omosessuale ma non riuscì mai a trovare il vero amore. Semmai lo cercò. Aveva legami con uomini e con donne, ma con il sesso soffriva. Non riuscì mai a chiarire, forse neppure a sé stesso, quale fosse la propria natura. Omosessuale per il piacere fisico, bisessuale per l'intensità del vincolo morale.
Warhol era religioso, cattolico (come da tradizione per un famiglia profuga dalla Polonia dove traeva origini) e professante, ma sembrò in più di un'occasione giocare con gli esseri umani. Disinteressarsi della loro unicità. Disfarsene non appena risultavano poco funzionali alla causa. E, di fronte al suicidio, restava insensibile. Perfino distaccato. Quasi cinico. Quando Fred Herko, un giovane ballerino che aveva lavorato per lui, si uccise buttandosi da un cornicione dove aveva improvvisato una danza, si lamentò di non essere stato avvisato e non aver potuto filmare il volo.
Warhol non dava valore al denaro e viveva con la mamma anche quando ormai era... Warhol. La amò profondamente, tutelando forse all'eccesso la sua privacy. Tuttavia quando morì non andò al funerale. «Odio vedere i cadaveri», commentò. Ma non la dimenticò mai e ne visitò la tomba. Fece l'impossibile per lanciare talenti. Non sempre ci riuscì. Spesso finì per alimentare i sogni di disperati allo sbando. Convinti di essere ciò che non erano. Come quella Valerie Solanas che gli sparò a bruciapelo. E uccise Andy per la prima volta. Solo il miracolo dei medici lo strappò a un cardiogramma ormai piatto, riattivandogli la respirazione con un massaggio a cuore aperto. E Warhol, da quel giorno - era il 3 giugno 1968, quando spararono anche a Bob Kennedy - ebbe paura. Come un uomo. Qualsiasi. Non come un mito. Quello che ormai era. E che divideva il belmondo e l'opinione pubblica. Un mostro. Un genio. Per tanti, solo un cattivo che si sarebbe preso gioco di molti.
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