«L’India è ardente e volgare, pensavo, ci fosse bisogno di una “traduzione” letterale per conservare la sua vera natura... L’esotizzazione dell’India, il suo “spregevole imbellimento”, è ciò che gli indiani hanno odiato di più. Adesso, infine, questo tipo di fasulla fascinazione è giunta al termine e l’India degli elefanti, delle tigri, dei pavoni, degli smeraldi e delle danzatrici è messa a tacere». Con questa citazione di Salman Rushdie, Francesco Bonami introduce (nel catalogo Electa) «Subcontingent. Il Subcontinente Indiano nell’arte contemporanea», la mostra curata da Ilaria Bonacossa e Francesco Manacorda ospitata nella sede torinese della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Una mostra fresca, interessante e piena di bravi artisti e di belle opere che analizza il panorama contemporaneo del subcontinente dell’Asia meridionale che comprende Paesi profondamente diversi: India, Bangladesh, Bhutan, Nepal, Pakistan, Sri Lanka (e secondo alcune interpretazioni geopolitiche anche Afghanistan, Myanmar e Maldive). Un mosaico di etnie, lingue, fedi religiose, stili di vita. Più che di un’identità unica, si può parlare di una composita interazione di tradizioni e contingenze (da cui il titolo). Una sorta di controcanto critico è costituito dal gruppo di artisti Raqs Media Collective. Accompagna la mostra una rassegna al cinema Massimo intitolata «Off Bollywood. Il cinema indiano oggi», curata da Elena Aime (tra i film presentati Acque silenziose di Sabiha Sumar e Little Terrorist di Ashvin Kumar): l’intento è presentare il cinema non commerciale e liberare il cinema indiano dall’etichetta di fabbrica di musical a lieto fine.
L’artista pakistana Bani Abidi ha predisposto l’analisi comparata di telegiornali indiano e pakistano che informano in modo differenziato sulle varie notizie. La stessa artista presenta un video su un gruppo di suonatori di cornamuse, un retaggio coloniale che usualmente accompagna cerimonie matrimoniali. In First Day of Spring, Runa Islam (artista nata in Bangladesh e residente a Londra) riprende i volti dei guidatori di risciò a riposo: in questo che l’artista definisce «una forma di documentario che è in realtà una fiction» la macchina da presa si muove con lentezza soffermandosi sulla caduta delle foglie e sulle variazioni luminose che scandiscono il tempo. «A Night of Prophecy è un film sulla poesia e una testimonianza del passaggio del tempo», dice Amar Kanwar. «La poesia mi è sembrata indispensabile per comprendere il tempo, e l’unico mezzo capace di influire sulla situazione politica contemporanea per modificarla».
Uno dei lavori più belli della mostra è quello di Sonia Khurana, una composizione di ritratti musicali (a ogni video corrisponde una diversa modalità di presentazione): un eunuco racconta la sua storia, la madre dell’artista, un’insegnante di musica che ha parzialmente perso la voce cerca di cantare ancora, una ragazzina messicana che ha subito lutti e perdite reagisce con l’energia del canto. Davvero interessante l’opera di Sharmila Samant, un hath gadi, un carrettino per bibite con una vecchia macchina per spremere i limoni e una serie di bottiglie di Coca-Cola, identificata come prodotto glocal, bottiglie che, simili a prima vista, presentano leggere varianti nel design secondo la distribuzione nei vari Paesi. L’artista ha sostituito il liquido all’interno con bevande multicolori, tutte preparate da lei secondo ricette dei vari Paesi (ad esempio cedrata per l’Italia o limonata o cioccolato caldo), proprio quelle soppiantate dal consumo di Coca-Cola. Tejal Shaha e Varsha Nair, connesse attraverso un abito a metà tra il vestito da sposa e la camicia di forza, hanno realizzato una performance a Torino.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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