Ho la sensazione che il teatro dell'Ecce homo di Caravaggio ritrovato a Madrid abbia avuto una formidabile influenza nella formazione di giovani artisti.
Teatrale è la presenza di Pilato che ha la testa e lo sguardo volti verso di noi e le mani che indicano il Cristo la cui imminenza è luminosa e dolente.
Pilato ci invita allo spettacolo di Cristo flagellato e incoronato di spine. È il re di un regno che non esiste. Ma Caravaggio, per quanto lo mostri brutalizzato, ne garantisce la nobiltà. Nel vivo contrasto con la volgarità, la brutalità, la rozzezza di Pilato. Appartengono a categorie umane diverse, come lo sono, rispetto a Cristo, i bruti della Flagellazione di San Domenico a Napoli o i carnefici che stanno seppellendo Santa Lucia nel dipinto di Siracusa.
È questa distinzione antropologica, questa evidenza realistica nel dipingere i cattivi o gli ignavi che caratterizza Caravaggio. E così manifesta la sua fede nell'uomo. Perché gli altri non sono uomini, sono bruti. Nel nuovo dipinto la forza plastica ed emergente del Pilato, ne evidenzia l'umanità bestiale, belluina, condannata dalla sua stessa cupidigia di potere. Cristo è re, Pilato non è nessuno. Ma la figura più inquietante, con il volto in penombra, l'ombra di Dio che lo nasconde, abbacinato e allucinato, è quella dello sgherro che depone il manto rosso sulle spalle di Cristo.
Il suo è un gesto di protezione e di dominio, di stupore e di paura.
Il suo dolore è diverso, è un improvviso spaesamento, una forma di inappartenenza. Ha lo sguardo fisso, è come stordito.
Qui il vero è potenziato dallo stolido, come se il buio avesse invaso non il volto ma la mente. Presente a Napoli, il dipinto dovette a lungo essere osservato da Battistello, nella sua declinazione malinconica, e soprattutto da un altro lombardo in transito nel Meridione: Tanzio da Varallo. Un dato certo è che nel 1600 Tanzio, assieme al fratello Melchiorre, è a Roma. Una lettera di patronaggio del prorettore della Valsesia ne attesta il proposito di recarsi pellegrini al giubileo indetto da papa Clemente VIII e di vivere con i proventi della loro attività di pittori.
A Roma avvenne - esperienza che lo accomuna a un po' tutti i pittori che a quella data vi arrivavano - la sua «folgorazione» per Caravaggio, in quegli anni inventore di un nuovo linguaggio.
Il periodo di sua permanenza lontano dalla Valsesia durò verosimilmente sino al 1615, e non fu solo a Roma, ma anche a Napoli.
La vide, lui, l'opera di Caravaggio. L'Ecce homo, intendo.
Li ritroveremo quell'allucinato scherano, sulle pareti del Sacro Monte, nel racconto della cappella XXVII (Cristo condotto per la prima volta al tribunale di Pilato) opera che già sul finire del 1616 gli venne allogata. Subito dopo il lavoro al Monte proseguì con gli affreschi della cappella XXXIV (Pilato si lava le mani, 1619-20).
Un decennio più tardi arriverà la commessa relativa a un'altra scena di tribunale, quella della Cappella XXVIII (Gesù davanti ad Erode).
Tanzio ripenserà a quel volto stordito, a quella maschera, alla sua pena, a quel tormento. Scriverà Giovanni Testori:«La carne-carne del Caravaggio, il suo sangue-sangue, da una parte; i sudori sacri e nefasti, le ambiguità tra grazia e peccato, i lividi deliri della maniera, dall'altra.»
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