Ecco i film sui «morti di fama» In campo i due registi più chic

Sono i due gioielli del cinema italiano. I più amati dalla critica, i più vezzeggiati dai produttori. Specie dopo che i loro film, sia pure in misura diversa, hanno fatto centro al box-office. Gomorra: dieci milioni di euro al box-office. Il Divo: quattro e mezzo. La vulgata giornalistica li vuole, insieme, amici e rivali. E loro, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, un po’ stanno al gioco. Sin da Cannes 2008, che premiò entrambi facendo gridare alla rinascita del cinema italiano, per arrivare alle recenti cinquine dei David, dove Il Divo sfodera un leggero vantaggio con 16 nomination contro le 11 di Gomorra, i due registi si contendono il palcoscenico. Impegnati, brillanti, senza complessi, titolari, ciascuno, di uno stile inconfondibile.
La novità degli ultimi giorni è che entrambi stanno lavorando a due film ispirati al mondo di «Cafonal». A quel mix, per dirla con Dagospia, di «morti da fama», vip «sull'orlo del burino», politici inforchettati, salotti esclusivi, tette rifatte, labbra a canotto, nobili e nobilastri alla carica del buffet, direttori pashminati, fotografi con le mani in pasta, manager in trasferta, eccetera. Niente a che fare col Supercafone periferico e vitalista der Piotta, ormai perso nel tempo, ma una nuova classe di rango, espressione di quel «cafonalismo trash-endente» che si dirama in tutti i mondi: appunto spettacolo, economia, politica, giornalismo.
Del resto, vorrà pur dire qualcosa che i due, in modo del tutto informale, tanto per farsi un'idea prima di metter mano ai copioni, abbiano contattato proprio Roberto D'Agostino, gran moralista esperto del ramo. Chissà cosa si saranno detti. Le bocche sono cucite. Nessuno conferma nulla. Ma di sicuro qualcosa sta bollendo in pentola. Prendete Sorrentino. Al giornalista Maurizio Porro che l'intervistava in vista dell'uscita americana del Divo, il cineasta napoletano ha buttato lì: «Sfogliando il libro “Cafonal”, vedendo alcuni programmi in tv, leggendo i giornali, sono rimasto come affascinato dall'universo della mondanità globale di oggi, omologata al gusto televisivo. Un universo che si ispira al gossip di Dagospia, ma anche a una classe dirigente certo non solo romana, a un universo strampalato che mi fa pensare a che punto siamo arrivati».
Difficile non ripensare, mezzo secolo dopo, alla Dolce vita, all'affresco felliniano che fu definito «un viaggio nella notte, durante il sonno della ragione, attraverso una civiltà corrotta e putrescente». Difatti Sorrentino non smentisce. Naturalmente il film è ancora tutto da scrivere, il regista non ammette paragoni, eppure: «Se devo dire il tema, mutate le coordinate e peggiorato ogni valore, mi richiamo proprio a quell'intuizione straordinaria che ebbe Fellini, cantore della mondanità anni Sessanta». La mondanità odierna, modello «Cafonal», gli sembrerà meno tragica e decadente, ma Sorrentino lo conoscete: è un gran osservatore, i suoi ingredienti preferiti sono - come rivelò a Barbara Palombelli - «la malvagità, il sopruso, la cattiveria», è di sinistra ma gli piacciono «i destri», nel racconto della desolazione umana, pure del kitsch, trova sempre un barlume di bellezza. Sostiene che «se c'è un difetto nel cinema italiano è la disattenzione di alcuni registi verso ciò che è prioritario in questo Paese. E ciò che è prioritario non sono né le storie d'amore, né le storie intimiste». Intanto ha girato, accanto a Olmi e Salvatores, un episodio del film collettivo Per fiducia finanziato da Intesa San Paolo, il più bello dei tre, spiegando che lavorare su commissione gli va benissimo: «Non mi sono mai sentito così libero, sganciato da logiche di mercato». S'è divertito a fare se stesso, per l'amica Francesca Archibugi, in una sequenza di Questione di cuore. E nei giorni scorsi, rispondendo all'invito di Repubblica, s'è precipitato all'Aquila per girare un cortometraggio e scrivere un denso reportage sul dopo terremoto.
All'opposto, l'appartato Matteo Garrone sembra custodire gelosamente il progetto che ruota attorno alla figura di Fabrizio Corona. Il regista procede per immagini, più volte ha spiegato che prima di scrivere deve «vedere», costruirsi il film in testa. Invece, appena espulso da La Fattoria, il fotografo più chiacchierato d'Italia annunciò urbi et orbi: «Una delle prime telefonate che ho ricevuto è stata quella di Matteo Garrone. Ci siamo piaciuti subito. Lui ha in mente un progetto lavorativo ed io spero di farne parte». Immediata smentita del regista: «Ho parlato con Corona, ma non c'è nessun progetto, ancora non so neppure io quale sarà il mio nuovo film».
Eppure il progetto esiste.

È probabile che Corona non ne faccia parte in prima persona, che la sua storia, i suoi guai giudiziari, le sue «sparate» contro Woodcock, i suoi amori vengano riscritti in una chiave di finzione, eppure il tema c'è tutto. Pensate: il mercato della carne, la ricchezza sfrontata, i calciatori, il business, i ricatti, insomma quella che D'Agostino chiama «la ciccia della società che conta». Il film perfetto dopo Gomorra.

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