
Aleggia un'ombra ancora indistinta sulle prime settimane della presidenza di Donald Trump. Per i giornali americani e per Wall Street questa presenza ha un nome: Mar-a-Lago accord, accordo di Mar-a-Lago, una denominazione nata come calco di un'altra intesa rimasta nella storia, l'accordo del Plaza Hotel nel 1985. Come l'accordo del Plaza concluso a suo tempo, quello di Mar-a-Lago si propone un obiettivo ambizioso: nientemeno che ridisegnare il sistema finanziario globale. Vasto programma, si potrebbe dire, con un'aggiunta che complica le cose: Trump non ne ha mai parlato e il suo sottosegretario al commercio Scott Bessent ha dedicato al tema poche frasi in qualche intervista. L'unico a elaborare sull'argomento è stato in un articolo pubblicato in novembre Stephen Miran, destinato a diventare il presidente del Consiglio dei consulenti economici di Trump. Da allora, e soprattutto dopo le prime mosse del neo-presidente, analisti e commentatori hanno passato al setaccio le parole di Miran, nel tentativo di trovare una chiave di interpretazione delle decisioni del tycoon.
Il punto di partenza dell'economista vicino alla nuova amministrazione è che il ruolo di riserva monetaria globale rivestito dal dollaro ha per gli Stati Uniti una controindicazione molto forte: la sopravvalutazione del biglietto verde, legata agli ininterrotti afflussi finanziari, che rende difficile l'export e penalizza la base industriale del Paese.
Per rendere di nuovo gli Stati Uniti una grande potenza manifatturiera, dice Miran, l'unica strada è quella di indebolirne la valuta trovando un'intesa, più o meno volontaria, con i partner commerciali. E qui è evidente il paragone con l'accordo del Plaza di New York (tra l'altro nel 1988, solo tre anni dopo l'intesa, l'hotel fu comprato proprio da Trump). Allora gli Stati Uniti convinsero i Paesi dell'allora G5 (Germania, Francia, Gran Bretagna, Giappone a cui si aggiunse il Canada) a ridimensionare il dollaro grazie a un'azione concertata delle banche centrali e facendo leva sul ruolo di perno degli Usa nel sistema di sicurezza globale.
Non è tutto. Il Mar-a-Lago accord, che ovviamente è ancora un progetto e non un accordo, si propone di svalutare il dollaro, ma senza fargli perdere il ruolo di riserva valutaria globale che consente agli Usa di finanziarsi a prezzi di saldo. Per riuscire nell'obiettivo, a prima vista una sorta di quadratura del cerchio, e «ammorbidire» i partner, Miran propone una politica di dazi, da cui saranno esclusi i Paesi che collaborano con il progetto; e di usare l'ombrello nucleare come arma negoziale: chi collaborerà continuerà a essere protetto, altrimenti dovrà organizzarsi da solo.
Per non innalzare il costo dell'indebitamento degli Stati Uniti sono previste varie misure, come l'uso delle riserve d'oro e delle terre di proprietà pubblica come garanzia per i prestiti. O come la conversione (anche questa più o meno volontaria) dei titoli Usa in un cosiddetto Century bond, con scadenza appunto a 100 anni.
Tutte idee senza dubbio originali che però gran parte degli economisti che si potrebbe definire «mainstream» ha bocciato come irrealizzabili. Per esempio: la conversione dei bond sarebbe, secondo molti, l'equivalente di un default con conseguenze inimmaginabili sul principale mercato mondiale. Un recentissimo paper dell'Atlantic Council sottolinea, invece, il mancato appeal che la proposta può avere sui principali esportatori negli Stati Uniti: «I Paesi con cui gli Usa hanno il maggiore deficit commerciale non sono più dipendenti dal suo ombrello di sicurezza».
Lo erano le nazioni dell'ex G5 «non Cina, Messico o Vietnam». E poi, perchè la Cina dovrebbe togliere le castagne dal fuoco al suo principale rivale geopolitico? Tutti elementi che aumentano l'incertezza su un piano che ufficialmente nemmeno esiste.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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