Dalla Bce i primi segnali di ritirata

Draghi: "Rischio di deflazione sconfitto, non c'è più urgenza di misure aggiuntive"

Dalla Bce i primi segnali di ritirata

La riunione di ieri della Bce sembra fissare uno spartiacque tra il periodo dell'emergenza contrastato a colpi di misure non convenzionali e quello successivo che, con tutta la prudenza e la gradualità necessarie, dovrà ricondurre la politica monetaria nell'alveo della normalità. Il punto da cui partire è quello chiarito da Mario Draghi durante la conferenza stampa che ha seguito il direttivo dell'istituto: «I rischi di deflazione non ci sono più». Battaglia vinta, insomma. Una sterzata si impone, benché non ancora così radicale da portare l'Eurotower a suonare la ritirata dal quantitative easing. Di tapering «non si è discusso», ha precisato il leader della banca centrale, ma nel comunicato finale è scomparsa, dopo mesi di presenza incessante, la classica locuzione secondo cui la Bce «agirà utilizzando tutti gli strumenti all'interno del proprio mandato». Non è un semplice dettaglio: è un'indicazione di tipo programmatico e operativo, oltre che un avviso sulla direzione che verrà intrapresa nei prossimi mesi. Precisa Draghi: proprio perché sono state debellate le tensioni deflazionistiche «non c'è più il senso di urgenza» rispetto all'esigenza di mettere in campo nuove misure di stimolo.

È vero, la Bce si è tenuta le mani libere per un'eventuale estensione del Qe oltre la scadenza naturale del prossimo dicembre, «se necessario»; si tratta tuttavia di un gesto di prudenza reso necessario dalle incertezze legate alle tornate elettorali in Francia, Olanda e Germania. Per il resto, il piano di acquisto titoli è, d'ora in poi, come cristallizzato e l'ipotesi circolata nei mesi scorsi di estendere lo shopping anche ai titoli azionari è definitivamente tramontata. All'interno del consiglio, del resto, il dibattito sulla guidance, cioè sui futuri orientamenti strategici, è particolarmente vivace senza toccare quelle punte di asprezza viste nei mesi di aperto contrasto tra le colombe della banca e i falchi capitanati dalla Bundesbank di Jens Weidmann. Draghi ha infatti ammesso che durante la riunione si è parlato anche di una possibile cancellazione del riferimento a tassi ancora più bassi in futuro, ma poi non se ne è fatto niente. Il motivo? L'inflazione non ha ancora raggiunto il target desiderato. Non almeno nella parte core (0,8% in febbraio), la più importante perché non tiene conto dei prezzi di beni alimentari ed energia, i due elementi di natura temporanea che secondo l'ex governatore di Bankitalia hanno portato l'inflazione a sfiorare il mese scorso il 2%. Le misure straordinarie messe in campo dovrebbero comunque garantire nel triennio 2016-2019 «1,7 punti percentuali addizionali sull'inflazione e 1,7 punti sulla crescita», valori di cui si è tenuto conto nell'elaborare le nuove stime, riviste al rialzo sia nella parte relativa ai prezzi, sia a quella del Pil.

Con una crescita che si va consolidando, i prossimi motivi di preoccupazione potrebbero essere due: gli intenti di rottamazione dell'euro che si vanno manifestando in alcuni Paesi dell'Unione e Donald Trump. Sul primo punto Draghi, però, non sembra spaventato: «Ci sono delle tensioni», ma «non sono così serie», e «l'euro è irrevocabile. Secondo l'ultimo Eurobarometro, oltre il 70% delle persone nell'area euro sono in favore di mantenerlo». Cauto nel dare giudizi sul progetto di un'Europa a due velocità («Sarà una decisione interamente politica»), il presidente dell'Eurotower non ha invece esitato ad attaccare Trump, che qualche settimana fa aveva accusato la Germania di sfruttare gli Stati Uniti per mezzo di un marco travestito da euro.

«Non credo ci sia alcun fondamento in questo tipo di attacchi. La valuta della Germania è l'euro, la politica monetaria è condotta dalla Bce e la Bce è indipendente». Draghi non ha dubbi: è il dollaro a essere sottovalutato, non l'euro.

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