Chi si era abituato all'asciutto pragmatismo di Mario Draghi dovrà farsene una ragione: Christine Lagarde è diversa. Il suo è un modo di comunicare ellittico. Poi, se può, svicola. Qualche attenuante, tuttavia, la neo presidente della Bce ce l'ha. Soprattutto circa la revisione strategica della politica monetaria, sulla quale si erano probabilmente create aspettative esagerate alla vigilia della riunione di ieri della banca centrale. Il nuovo corso lagardiano è, per ora, solo una bella cornice priva del quadro. Parole come «formulazione quantitativa della stabilità dei prezzi, kit di strumenti di politica monetaria, analisi economiche e monetarie e pratiche di comunicazione» suonano infatti un po' vuote pur essendo, appunto, le architravi che sorreggono l'intero progetto.
Ma per quanto i lavori siano appena iniziati e destinati a durare fino a dicembre («è la data probabile» per arrivare alle conclusioni, ha detto l'ex capa dell'Fmi), qualche parola in più sulla promessa svolta green dell'Eurotower era lecito attendersela. Di protezione dell'ambiente se ne parla ormai ovunque. Lei, invece, se l'è cavata in modo banale: «La responsabilità del climate change è di tutti. Le cose stanno già accadendo. Non è una discussione nata quando sono arrivata io». Non una parola, insomma, sugli strumenti per colorare di verde Francoforte, tipo la possibile rimodulazione dei prestiti Tltro per finanziare le energie rinnovabili; né un accenno alla possibilità di riempire il portafoglio dell'istituto di green bond.
Questa vaghezza è alla fine inquietante, perché lascia il sospetto che le capacità politiche, che certo alla Lagarde non difettano, non potranno colmare le lacune tecniche di chi banchiere centrale non è e, forse, mai sarà. Non c'è tempo per improvvisare, o per aspettare. Mantenendo ferma la barra dei tassi e confermando gli acquisti di titoli per 20 miliardi di euro al mese, la Bce segnala che la situazione congiunturale non è migliorata. Anzi, con Donald Trump che va mulinando dazi del 25% sull'auto europea, le cose possono solo peggiorare. Ma anche in questo caso, l'ex ministra francese delle Finanze tronca e sopisce le preoccupazioni: «I risultati del meeting tra la von der Leyen (la presidente della Commissione Ue, ndr) e Trump sono preliminari. Il tono è stato comunque positivo».
Purtroppo non è così: questo non è un romanzo rosa di Liala, ma un mondo globale complesso e conflittuale. E il board della Bce, con le sue spaccature interne, ne è una plastica rappresentazione. La Lagarde pare essersene accorta, vista l'inversione di rotta rispetto alle promesse iniziali di ricerca della collegialità nelle decisioni («L'unanimità sarebbe meglio averla, ma la maggioranza va bene uguale»). Ma rischia anche di trovare le barricate quando, nell'ambito della revisione delle linee strategiche, andrà a toccare nodi cruciali come i tassi negativi e il quantitative easing, visti come il fumo negli occhi dai falchi della banca. In particolare se sul tavolo verrà messo un vecchio pallino di Draghi, quell'inflazione simmetrica con cui verrebbe rottamato il target del 2% annuo a beneficio di un calcolo fatto magari su una media triennale. Un grimaldello per attuare una politica più espansiva.
Tuttavia, anche su un punto cruciale come questo la Lagarde si è asserragliata in difesa: «Ho la mia visione, ma non la rivelerò, poiché sarebbe ingiusto nei confronti di quella strategy review che stiamo per iniziare». Speriamo che Madame, prima o poi, ci racconti qualcosa.
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