La sindrome ha colpito ancora Stoccolma. Quando si tratta di attribuire il Nobel per l'economia, all'Accademia continua a sfuggire il passato recente: prevale sempre quello remoto. Errore compiuto anche stavolta, con il premio assegnato ieri a Douglas Diamond, Philip Dybvig e, soprattutto, all'ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke. Pur soffermandosi, nelle motivazioni, sul contributo offerto dal terzetto agli studi sulle crisi finanziarie, in particolare quella degli anni '30, manca del tutto un benché minimo riferimento a quella provocata dai mutui subprime. Ed è invece proprio su quel terreno tossico che andrebbe calibrato il giudizio sul successore di Alan Greenspan.
Di quel tumore germinato dall'idea di vendere una casa a chiunque, come se fosse un pacchetto di «chewing gum», e poi degenerato in metastasi per le successive alchimie degli stregoni della finanza, Greenspan ha senz'altro non poche responsabilità. Avendo ridotto il tasso dei Fed Funds dal 6,5% del 2000 all'1% del 2003, il «Maestro» ha contribuito ad alimentare la bolla immobiliare. Bernanke ha però fatto di peggio: a lungo, non ci ha capito una mazza. Nel 2005, ancor prima di varcare la soglia di Eccles Building, sentenziava sicuro sull'inesistenza di una «bubble» del mattone. Questa sottovalutazione del fenomeno è all'origine del passo falso esiziale compiuto due anni dopo, quando George W. Bush gli affida le chiavi del tempio monetario Usa. Il petrolio a 100 dollari il barile fa vedere a Ben la pagliuzza dell'inflazione e non la trave che sta piombando sull'economia. Mentre già si avvertono sinistri scricchiolii, lui è tutto concentrato sul rialzo dei tassi. A disastro conclamato (agosto 2007), mentre si allungano le ombre della Grande recessione, applica un «sopire, troncare» di manzoniana memoria: le perdite stimate dalla Fed causa mutui avvelenati non vanno oltre i 100 miliardi di dollari. Otto mesi dopo, il Fmi parlerà di una cifra dieci volte superiore. È la pietra tombale sull'illusione di danni gestibili.
Così, dietro le pressioni della Casa Bianca, Bernanke cambia marcia scatenando, con il primo round di quantitative easing, un'ondata mai vista prima di monetizzazione del debito. Lì, in un profluvio di acronimi (Zirp, Nirp, Tarp, ecc.) che esprimono la quantità monstre di denaro iniettato nel sistema, la banca centrale Usa prende in mano il pallino. Il capo della Fed diventa per tutti «Helicopter Ben», colui che lancia bigliettoni dal cielo.
L'idea che quella americana non fosse una crisi provocata dalla scarsa liquidità, bensì dai timori sulla tenuta dei bilanci aziendali non ha mai sfiorato Bernanke, troppo impegnato a salvare le «too big to fail» della Corporate America in odore di crac. Merrill Lynch si ripara infatti sotto l'ala di Bank of America, per Aig si apre il paracadute dei fondi pubblici e Bear Stearns evita il precipizio grazie a JP Morgan. Lehman Brothers, la più piccola tra le merchant bank, finisce nel tritacarne. È la sola a essere sacrificata sull'altare di quel nuovo capitalismo che avrebbe fatto inorridire Milton Friedman (morto nel 2006), contrario alle politiche interventiste dei governi e delle banche centrali.
Oltre un decennio dopo, la Fed non si è ancora liberata dei cascami di quell'epoca. Il suo bilancio si è gonfiato dai 2.
500 miliardi di allora agli attuali 9mila miliardi, poiché la «tipografia» di Eccles Building non ha mai smesso di stampare dollari. Bernanke ha aperto una strada, tutte le altre banche centrali lo hanno seguito. Fino a provocare il peggior ambiente inflazionistico degli ultimi 40 anni. Va ricordato per questo. E ciò non vale un Nobel.
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