Nel decreto aiuti bis, l’ultimo dell’era Draghi, il primo ministro è riuscito in extremis a inserire una norma che da tempo si era prefisso: un importante intervento finanziario per l’Ilva di Taranto. La forma scelta è quella di un aumento di capitale fino a un miliardo da parte di Invitalia.
La società pubblica ora guidata da Bernardo Mattarella dopo l’era Arcuri, è socia di Arcelormittal dal 2020, quando l’allora presidente Conte togliendo lo scudo penale decise di liberare il privato dall’impegno di investimento da 4,2 miliardi imposto dalla gara di aggiudicazione, e sostituirlo con un intervento pubblico. Ma da allora Invitalia ha contribuito solo con 400 milioni per comprare il 40% delle quote, mentre ArcelorMittal ha investito 1,8 miliardi per il piano ambientale e la gestione dell'acciaieria.
Ma dopo 10 anni dal sequestro preventivo dell’area a caldo ad opera della procura di Taranto quegli impianti sono ancora sotto sequestro della magistratura, e nessuno è cosi matto da volerci investire. Nonostante il piano firmato da Conte preveda la riaccensione dell’altoforno 5. Dopo l’esproprio dell’azienda compiuto nel 2014 da Letta e Orlando ai danni della famiglia Riva, l’amministrazione straordinaria ha tenuto volutamente la produzione bassa negli anni per restare sotto i limiti di emissioni. Questo a danno dell’equilibrio finanziario e della produttività, e ricorrendo alla cassa integrazione.
Con l’arrivo di ArcelorMittal dopo la gara di acquisto sono partiti gli investimenti ambientali. La scelta di Conte però, coadiuvato sul dossier Ilva da Gualtieri, ha cambiato tutto e ora gli investimenti deve farli lo stato. Ma negli ultimi tre anni non ha fatto nulla, solo perso altro tempo blaterando di un nuovo piano industriale di cui non se ne ravvede il bisogno, non avendo ancora realizzato quello attualmente autorizzato a tre altoforni. Una scusa per perdere tempo continuando a sperperare denaro pubblico, distruggendo un settore industriale, una fabbrica immensa, e 5 mila lavoratori in cassa integrazione di cui 3500 messi in cigs dal minsitro Orlando senza accordo sindacale.
Finché è arrivato Draghi e più volte pubblicamente in conferenza stampa ha detto che “Ilva deve tornare produrre al massimo delle sue potenzialità e ad essere la più importante fabbrica siderurgica d’Europa”. Ma ogni volta Pd e 5 stelle si sono messi di traverso. In primavera si sono spinti addirittura fino a far quasi cadere il governo, salvato dal voto di Fratelli d’Italia, per un intervento di soli 100 milioni. Ben altro rispetto a ciò che serve ad Ilva per il piano industriale. Ma l’azienda in questo momento ha bisogno di liquidità per pagare i fornitori, le materie prime e le manutenzioni. Per questo Draghi, dopo aver chiesto a Franco Bernabè il sacrificio prendere in mano le relazioni istituzionali e l’immagine di Acciaierie d’Italia, ancora perseguitata da magistrati, politica locale e mezzi di informazione, ossessionati da una narrazione lontana dallo studio delle relazioni degli organi di controllo che da anni ne attestano la regolarità ambientale e il rispetto delle prescrizioni, è dovuto intervenire personalmente.
L’intervento da 1 miliardo inserito in decreto è un tesoretto che però il prossimo governo dovrà decidere come mettere a terra. Nonostante questo il Partito Democratico, che continua a sventolare l'agenda Draghi, ha subito protestato contro la norma inserita dal premier. Il primo ovviamente è stato il presidente della regione Puglia Michele Emiliano che nella riunione convocata il giorno prima da Giorgetti e Orlando per illustrare la norma, si è arrabbiato per non essere stato prima consultato. E cosi appena finito il tavolo al Mise ha convocato un tavolo alternativo a Bari alla presenza del suo delfino sindaco di Taranto (sostenuto in campagna elettorale da Enrico Letta). Gli ha risposto la Fim Cisl piccata scrivendo in una lettera che l’unico tavolo in cui si discute il dossier Ilva è quello nazionale. A quel punto Emiliano ha annullato il tavolo con una figuraccia galattica. Con lui i consiglieri regionali dem.
Sulla stessa linea anche il senatore Antonio Misiani, ritenuto l’industrialista del Pd. Che invece da quando è stato mandato come commissario del partito a Taranto blatera di acciaio green e decarbonizzazione. E così ieri dopo il decreto di Draghi è intervenuto chiedendo una valutazione del danno sanitario (che già c’è e fa il Mite per sopperire agli enti regionali) e addirittura scrivendo in un comunicato congiunto con l'onorevole Ubaldo Pagano che sarà capolista Pd “non si sono registrati sufficienti progressi, come ha certificato la recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, rispetto all’adeguamento degli impianti o del superamento dei livelli inquinanti”. Cosa assolutamente non vera non solo perché smentita dagli organi preposti al controllo, e ribadita dal Mite proprio nella riunione di due giorni fa, ma perché alla Cedu ha già risposto difendendo lo stabilimento il Governo Italiano guidato da Mario Draghi con una lettera al Consiglio dei Ministri Europeo.
Al Pd si è subito associata Europa Verde di Bonelli chiedendo la chiusura dell’area a caldo.
Posizioni in netto contrasto con la cosiddetta agenda draghi, da cui il Pd, aldilà delle dichiarazioni, è nettamente lontano.
L’unico a non essersene accorto è Carlo Calenda, che in questi giorni continua a criticare l’azione dei 5 stelle proprio su Ilva, dimenticando che a tenerla ferma da troppi anni è il Partito Democratico.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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