Le imprese moriranno e gli imprenditori scapperanno. Dove? Etiopia, Iraq, Turchia, Svizzera. Avranno solo l'imbarazzo della scelta. Perché trovare un paese in cui la pressione fiscale nei confronti delle Pmi sia minore è facile come bere un bicchier d'acqua.
Basta citare l'ultimo rapporto della società Price Waterhouse Coopers per rendersi conto del guado in cui il nostro Paese è finito. L’Italia si colloca mestamente al 131esimo posto nella classifica mondiale sulla tassazione delle imprese. Ci superano nazioni come la Sierra Leone, l'Uganda, la Colombia, la Bosnia, oltre ai vicini occidentali. Sono paesi in cui non c'è difficoltà di investimento, non c'è un livello di pressione fiscale spropositato rispetto a spese e guadagni, non c'è l'infernale e farraginosa macchina burocratica e i crediti vengono pagati in tempi ragionevoli.
Tutte cose che invece contraddistinguono in negativo il Belpaese, le cui Pmi subiscono un carico fiscale complessivo (tasse sugli utili, sul lavoro e altri oneri) pari al 68,3%. Un numero da capogiro soprattutto se paragonato a quello del Lussemburgo (21%), Irlanda (26,4%), Danimarca (27,7% di tassazione), Gran Bretagna (35,5%), Olanda (40%), Germania (46,8%).
Tra i fattori che rendono disastroso il quadro nostrano ci sono la burocrazia (per tutti gli adempimenti una azienda perde in media 269 ore l'anno) e le tasse sul lavoro (che da sole persano per circa il 40%). Quello della pressione fiscale è un allarme che ricorre ormai da tempo. Tuttavia, nonostante i ripetuti richiami lanciati da associazioni di categoria, Confindustria e politici, e nonostante già centinaia di aziende si siano trasferite in zone in cui il peso fiscale e burocratico dello stato è decisamente minore, poco cambia. Se non che le tasse continuano ad aumentare.
Secondo un sondaggio Ispo/Confartigianato, che fotografa la situazione fiscale delle aziende artigiane, è emerso che per oltre un milione di Pmi la pressione fiscale è incrementata del 22,6% in un solo anno, mentre l’aumento delle tasse costringe il 58% delle imprese a chiedere prestiti e a dilazionare i pagamenti, portando così il 61% delle imprese a rinunciare a investire e a ritardare i pagamenti ai fornitori. Come se non bastasse, quest'anno circa 40mila imprenditori non potranno pagare le imposte per mancanza di liquidità.
Inoltre, lo stesso sondaggio evidenzia come in termini di burocrazia nulla sia cambiato. Anzi, in quest’ultimo anno, per il 57% degli imprenditori sono aumentati pure gli adempimenti burocratici in campo fiscale. Se a ciò si aggiunge che una Pmi su tre non riceve credito dalle banche nonostante le garanzie
concesse dai Confidi, ecco che diventa più chiaro il motivo per cui le imprese muoiono o emigrano.
Per avere un quadro sicuramente non esaustivo ma che possa in qualche modo rendere bene l'idea della mole di tasse che falcidiano la salute economica delle nostre imprese, basta elencare tutte le imposte con cui una azienda, facciamo l'esempio di una società che si occupa di spedizioni internazionali, deve fare i conti.
Si parte col Fondo agenti spedizionieri e corrieri (metà a carico dell'azienda e metà a carico del lavoratore), poi c'è l'Irap (che si paga in base al numero dei dipendenti indipendentemente da eventuali crisi o cali di produzione), le varie quote da versare per far parte delle associazioni di categoria; l'Ires, imposta ordinaria sugli utili della società, l'Iva, l'Imu, l'Inps, l'Inail, il diritto camerale e due fantomatici
fondi, chiamati Ebilog e Sanilog. E non abbiamo considerato tutta la serie di adempimenti burocratici che un'azienda deve assolvere e che, secondo l'ultima analisi della Cgia di Mestre, "pesano" circa 6mila euro per ogni pmi.twitter: @domenicoferrara
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