La notizia (non smentita) delle trattative tra Generali e i francesi di Natixis per un'alleanza nel risparmio gestito ha fatto alzare le antenne a Roma e in ambienti finanziari. Il timore è che all'orizzonte possa materializzarsi un attacco al cuore della finanza nazionale, con oltre 2 .100 miliardi di asset (1.300 gestiti da Natixis e 845 dalle Generali) coinvolti e il pericolo che uno dei centri nevralgici del nostro sistema possa passare in mani straniere. Da qui l'indiscrezione per la quale, anche in vista del rinnovo dei vertici del Leone di Trieste in primavera, la Cassa depositi e prestiti possa entrare nel capitale delle Generali, per creare stabilità tra i soci e un cordone sanitario a protezione da appetiti stranieri. Ma non tutti concordano che sia la strada giusta. Ieri il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, è stato a tal proposito perentorio: «Per gli ingressi di operatori pubblici nelle società private deve esserci un interesse di sicurezza nazionale che lo giustifichi, altrimenti non riesco a capire il motivo». Insomma, il capo della prima banca italiana fa capire che un intervento di Cdp sarebbe giustificato solo a condizioni molto particolari. «È chiaro - ha aggiunto - che se Cdp dovesse intervenire, qualcuno avrà valutato che c'è un interesse di sicurezza nazionale. Se non è per quello, ma è soltanto per intervenire in partite finanziarie per definire chi comanda nei diversi contesti, penso che ci siano tanti investimenti su infrastrutture e motori di crescita del Paese più importanti rispetto a quello». Viceversa, se ci sono informazioni per cui ci possa essere un rischio, «allora ben venga qualunque tipo di investimento».
Il capo della prima banca italiana, interpellato dai giornalisti, si è poi espresso sull'Offerta pubblica di scambio lanciata da Unicredit all'indirizzo del Banco Bpm: «Credo che il pallino di queste operazioni debba essere dal punto di vista della supervisione nelle mani della Bce e dal punto delle decisioni nelle mani degli azionisti». Dichiarazione, quest'ultima, da interpretare nell'ottica di un top manager che alcuni anni fa ha concluso un'operazione simile su Ubi Banca e quindi sarebbe stato quanto meno inusuale esprimersi in modo diverso. Messina, che secondo fonti di stampa potrebbe entrare in qualche modo nelle attuali manovre di risiko bancario, respinge la possibilità che possa immischiarsi nella vicenda Unicredit-Bpm: «Sicuramente non possiamo essere cavalieri in queste operazioni per un motivo molto semplice: abbiamo già una quota di mercato elevata in Italia».
Intanto, ieri Unicredit ha risposto alle preoccupazioni espresse dell'ad di Bpm, Giuseppe Castagna, circa la possibilità di 6mila esuberi nel caso l'Ops abbia successo: «Il numero indicato da Bpm è pura congettura», ha detto un portavoce, «speculare su tali dettagli in questa fase è solo fuorviante». Nel frattempo il capo di Unicredit, Andrea Orcel, sta continuando a tessere la tela per arrivare a Bpm (soprattutto ad Anima, che è l'obiettivo più ghiotto per una banca rimasta orfana di una sua fabbrica prodotto di fondi). Secondo indiscrezioni attendibili, Orcel incontrerà in questi giorni a Parigi Philippe Brassac, amministratore delegato di Credit Agricole (azionista del Bpm con il 9,2% delle quote). L'intento è di trovare un accordo per convincere la banca transaplina a essere dalla sua parte, anche se è difficile che i francesi (proprietari di Amundi, che ha un accordo di distribuzione con Unicredit fino al 2027) possano cedere in toto la loro partecipazione.
Sul mercato tra le ipotesi è circolata anche l'idea di una fusione amichevole tra Bpm ed Mps (dove il Tesoro, con oltre
l'11%, è ancora il socio principale), ma in questo caso la proposta dovrebbe arrivare da Rocca Salimbeni. Intanto ieri il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, è tornato a evocare il golden power: «Il governo valuterà».
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