Il prezzo del petrolio fa registrare il livello più basso degli ultimi cinque anni, sulla scia del mancato taglio delle quote produttive deciso dall'Opec nei giorni scorsi. I "future" sul Light crude arretrano a 64,06 dollari, dopo un minimo dal luglio 2009 di 63,72 dollari e quelli sul Brent cedono 2,20 dollari a 67,96 dollari. Da giugno il calo è stato del 30-35%. Che effetti produrrà questo crollo? Chi ci guadagna e chi ci perde? Come riporta Milano Finanza, secondo Peter Dragicevich (Commonwealth Bank of Australia) l'economia reale potrebbe trarne giovamento, perché il minor costo dei carburanti si traduce in minori spese per i trasporti e, di conseguenza, in una sensibile diminuzione dei prezzi di molti prodotti. Effetti simili a quelli derivanti dal taglio delle tasse, con più denaro (da spendere) a disposizione dei consumatori. Se con un barile a 80 dollari (rispetto ai 100 di qualche mese fa) il risparmio per ciascuna famiglia americana poteva essere quantificato in 600 dollari all'anno, con il prezzo a 70 dollari le cose andranno ancora meglio.
In Italia il discorso è un po' diverso: il risparmio c'è ma, con tutte le tasse che gravano sui carburanti, si sente poco. Basti pensare che per la benzina la componente fiscale (Iva e accise) è il 62%, contro il 38% dei costi industriali. Quindi se si registra un calo del 30% sul prezzo del petrolio non possiamo aspettarci una diminuzione equivalente sul costo della benzina. È una semplice questione matematica. Per il diesel, invece, l'incidenza fisco/costo industriale è del 58% e del 42%.
Con il prezzo più basso dei carburanti dovrebbero aumentare i consumi, con conseguenze immediate (e positive) per l'economia. Questo effetto moltiplicatore dovrebbe avere un impatto più forte in Cina che negli Usa, tenuto conto che Pechino ha una maggiore dipendenza energetica rispetto a Washington. Il no dei sauditi al taglio della produzione (ratificato dall'Opec pochi giorni fa), si traduce, dunque, in un bel “regalo di Natale” soprattutto per gli Stati Uniti e la Cina.
I sauditi non sono masochisti sprovveduti: pur perdendo qualcosa nell'immediato (vendendo il greggio a un prezzo inferiore), alla lunga ci guadagneranno, visti gli investimenti che hanno negli States. Anche perché se l'economia a stelle e strisce soffre, a rimetterci è anche Riad. Potere della finanza globale. Anche se non sono tutte rose e fiori. Le Borse dei Paesi del Golfo dopo due giorni di chiusura domenica hanno fatto registrare perdite fino al 6,2%. "Gli investitori - commenta Ali Khan, analista di Bgr Asset Management - temono che il petrolio possa rimanere ai livelli attuali, cosa che avrebbe un impatto negativo sulle entrate dei Paesi, creando venti contrari alla spesa pubblica". Il greggio, infatti, che già da mesi aveva innescato la retromarcia a causa del calo dei consumi e della sovrapproduzione mondiale, è sceso ancora. L’Arabia Saudita ha programmi di spesa per oltre 500 miliardi di dollari, che, secondo Deutsche Bank, necessitano di almeno 99 dollari al barile per essere sostenuti. Non se la passa meglio l'Oman, che rischia una catastrofe economica, come scrive il quotidiano britannico "The Telegraph". Il sultanato, che ha una posizione strategica nel Golfo Persico, ha visto precipitare il valore delle esportazioni di greggio quest’anno, mentre il costo di produzione nei suoi giacimenti maturi è in aumento. Gli idrocarburi generano il 75% delle entrate pubbliche e il bilancio dello Stato è basato su una stima di 85 dollari al barile.
Inutile fare finta di non vedere che c'è anche una scelta geopolitica dietro alla politica dei prezzi bassi: tenere sotto scacco due Paesi le cui economie dipendono fortemente dalle entrate derivanti dal petrolio. Stiamo parlando di Iran e Russia, il primo tenuto a bada soprattutto per la questione nucleare (parliamo sempre di energia), il secondo per le arcinote problematiche legate all'Ucraina e alle sanzioni contro Mosca varate da Stati Uniti ed Europa. Mandare sul lastrico l'economia russa non dispiacerebbe affatto agli americani, visto e considerato che i problemi ricadrebbero dritti dritti sulle spalle di Putin. Secondo un recente sondaggio condotto da Bloomberg, che ha raccolto il parere di 32 economisti, le probabilità che l'economia russa vada in recessione sono aumentate del 75%. Putin farà di tutto per evitarlo, ma la Russia ricava circa la metà delle entrate proprio dal petrolio e dal gas. E gli affari con la Cina (con i contratti già stipulati) sono ancora lontani. Secondo una stima di Bloomberg il Pil russo crescerà, nel 2015, di appena lo 0,1%, rispetto all'ultima previsione dello 0,8%. E con un'inflazione intorno al 9,3% e le sanzioni economiche, a Mosca e dintorni c'è poco da stare allegri. Per quanto riguarda l'Iran, l'obiettivo è di metterlo all'angolo costringendolo a più miti consigli sul nucleare: sarebbe un “colpaccio” a livello geopolitico.
Circola anche l'ipotesi che dietro alla mossa saudita di tenere bassi i prezzi ci sia la volontà di stroncare sul nascere le velleità americane di raggiungere l'indipendenza economica grazie allo shail oil. Ma questo per Washington è un obiettivo strategico troppo importante, condiviso, tra l'altro, da democratici e repubblicani. Chiunque sieda alla Casa Bianca farà di tutto per continuare a trivellare le rocce ed estrarre fino all'ultima goccia di petrolio (e di gas).
Leonardo Maugeri, professore associato del Belfer Center ad Harvard, sottolinea una cosa importante a Milano Finanza: gli Usa possono continuare a produrre anche se il greggio andrà sotto i 70 dollari al barile.
“La produzione ha dei break-even molto più bassi di quanto si creda”. Insomma, il prezzo potrà anche andare giù ma questo non intaccherà l'entusiasmo degli americani. Per i quali l'indipendenza economica è un obiettivo strategico (e per certi versi anche militare) prima che economico.
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