«Well done, Jay!». Usando a ripetizione i tassi come una testa d'ariete, Jerome Powell sembra aver fatto finalmente breccia nella porta dell'economia americana. Indicatori macroeconomici sempre più pallidi stanno infatti accompagnando la Bideneconomics verso l'appuntamento novembrino delle urne presidenziali, quando l'America potrebbe essere già nelle spire della recessione. I sintomi ci sono già tutti, e la velocità con cui il Paese finirà in contrazione dipenderà in buona misura dalle prossime mosse della Federal Reserve. Quando cioè Eccles Building avrà sciolto il dubbio amletico, sollevato al simposio di Jackson Hole dal suo comandante in capo, legato al pericolo di «fare troppo o troppo poco». Nel primo caso, ulteriori e non necessarie strette al costo del denaro potrebbero provocare un atterraggio duro; nel secondo, una postura troppo morbida (tassi fermi) rischierebbe di fare il gioco dell'inflazione.
I mercati assegnano meno del 50% di chance di una stretta in settembre al costo del denaro, considerata ancora assai probabile in novembre. Il «wait and see» è peraltro suggerito dai dati più freschi che confermano come la politica monetaria restrittiva non sia passata come acqua sul marmo sull'economia a stelle e strisce e abbia invece impattato sull'andamento del Pil, salito fra aprile e giugno, nella seconda lettura del dipartimento al Commercio, del 2,1%, un passo inferiore al 2,4% della stima preliminare. Non un buon segnale per la Fed di Atlanta, che col suo GdpNow prevede una crescita nel terzo trimestre del 5,9 percento.
Ma se il Pil è il bersaglio grosso, è nei gangli vitali dell'economia che la banca centrale Usa sta scandagliando per soppesare l'effetto delle proprie decisioni. E il primo posto dove orientare il periscopio è il mercato del lavoro, per mesi un'autentica spina nel fianco dell'istituto di Washington per la tenuta mostrata dagli organici aziendali e dato il continuo aumento delle retribuzioni, viste come possibile innesco di una spirale prezzi-salari. Ora, però, da entrambi i fronti arrivano segnali di stanca. Ieri l'Adp ha reso noto che in agosto sono stati creati nel settore privato 177mila nuovi posti, ben al di sotto dei 371mila di luglio. Nela Richardson, capo economista di Adp, riconduce il fenomeno alla normalizzazione del mercato del lavoro dopo il biennio ruggente post-Covid, ma in attesa del rapporto mensile sull'occupazione del Bureau of Labour statistics di venerdì prossimo, la sensazione che qualcosa si sia inceppato viene confermata anche da altre notizie. La prima è che in luglio le richieste di lavoratori da parte delle imprese si sono fermate poco al di sopra degli 8,8 milioni e sono scese per la prima volta da marzo '21 sotto quota nove milioni; la seconda è che la stagione delle dimissioni di massa, quando gli americani si licenziavano convinti di strappare altrove stipendi più alti, pare al tramonto: gli «auto-licenziamenti» sono stati 3,5 milioni, il minimo da febbraio 2021; terzo, anche le assunzioni - 5,7 milioni, il livello più basso da 28 mesi - segnano il passo; quarto, gli aumenti salariali sono saliti del 5,9% su base annua, il ritmo più lento dall'ottobre 2021.
La situazione meno tesa sul mercato del lavoro sembra fare il paio con un minore surriscaldamento dei prezzi, con l'indice Pce core, il più monitorato dalla Fed, che nel secondo trimestre è salito del 3,7% dal 3,8% della prima lettura.
L'inflazione resta alta, ma ora Powell ha un vantaggio: può permettersi di non forzare la mano sui tassi. In attesa di capire se in autunno sarà già tempo per preparare la migrazione verso una politica monetaria meno austera.
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