Il mondo delle costruzioni ha un nuovo campione nazionale: quella Salini Impregilo, nata dalla fusione delle omonime società, una d'animo romano e l'altra di tradizione milanese. I numeri sono da capogiro per il frammentato e statico mondo degli appalti e delle concessioni italiane: 4,1 miliardi di fatturato per 32mila dipendenti che, tra tre anni, saranno 7,4 miliardi con 50mila addetti. Peccato, però, che il nostro paese vedrà ben poco dei frutti di questo nuovo colosso delle costruzioni, sia in termini di business, sia occupazionali. Questo perché, nel tempo, una serie di governi miopi hanno allontanato la società dall'Italia. Tanto che oggi, nel giorno della presentazione alla stampa, l'ad e patron Pietro Salini ha definito la nuova creatura «un'azienda non più italiana, ma globale».
È il segno dei tempi in un Paese dove, dalle telecomunicazioni ai trasporti, non esistono più campioni nazionali e si assiste impotenti alla fuga all'estero di business miliardari. E per Salini Impregilo è solo l'inizio «della fine». Basti pensare che oggi il gruppo ha in Italia una quota di mercato del 18%, contro l'82% rappresentato dai mercati esteri. E che «a fine piano, tra tre anni - spiega al Giornale il dg Massimo Ferrari - questa quota scenderà a ridosso del 10%, ai livelli rappresentati oggi da Paesi come il Cile, la Libia e la Danimarca». Una debacle che è il risultato di alcuni atavici limiti che, nel tempo, si sono sclerotizzati: la mancanza di fondi, i lunghi tempi di avvio dei lavori che vanno a braccetto con una difficile burocrazia. Un grave ostacolo è, poi, il codice degli appalti e l'impossibiltà di dare il via ad arbitrati snelli come all'estero dove, in tre mesi, eventuali contenziosi vengono risolti. «La lenta macchina dei processi civili è quindi un forte deterrente d'investimento - spiega Ferrari, ricordando come - all'estero, sul fronte degli investimenti, pubblico e privato dialoghino facilmente». E così non è più questione di ottimismo, l'Italia si è fatta terra bruciata. Per Impregilo, lo ricordano i casi concreti: il Ponte di Messina, prima assegnato e poi annullato; la Tem da anni in rampa di lancio; il caso dei termovalorizzatori campani che hanno portato a un'annosa guerra culminata con un sequestro da 750 milioni, poi annullato. Non manca comunque l'eccezione che conferma la regola. «Sta per partire l'alta velocità Milano-Genova» commenta laconico Ferrari.
Per altro, in rampa di lancio da un decennio. E così ieri, l'unico riferimento all'Italia ha riguardato gli scavi di Pompei e il progetto allo studio del gruppo per risollevarne le sorti con un investimento da 20 milioni. A conti fatti, alle aziende «in fuga» non resta che portarsi dietro la filiera made in Italy, ma è una goccia nel mare di un sistema dove i pesci grandi hanno preso il largo. E nel merito, il gruppo ha le idee chiare: raddoppiare il fatturato in 3 anni facendo affidamento al mercato dei capitali e stringendo alleanze con le aziende locali che, paese per paese, sono la chiave d'accesso alle gare. «Un business - ha spiegato l'ad Pietro Salini - che si concentrerà in Medio Oriente, Australia, Stati Uniti e Canada, con un occhio di riguardo alla taglia media delle opere che dovranno essere sopra i 500 milioni di dollari».
Il tutto mentre la macchina post fusione entra in moto con tre nuovi consiglieri: Nicola Greco, Giacomo Marazzi e Franco Passacantando (direttore centrale di Bankitalia fino al 15 dicembre). Sul fronte del flottante, entro l'anno sarà ricostruito (25%) con aumento di capitale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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