Vorrei fare una cortese replica al mio amico Ugo Intini, che ieri laltro sul Corriere, parlando di Luigi Einaudi, si è un po arrampicato sugli specchi. Di Intini ricordo - e di qui anche la mia stima - la coerenza e la lealtà in momenti particolarmente difficili, verso quello chera stato il suo «guru», cioè Craxi, mollato anche da amici che avevano goduto della sua protezione. Questa volta, però, mi pare che lamico Ugo stia cercando di dimostrare lindimostrabile.
Nella sua lettera al Corriere egli dice che Einaudi fu sì liberale ma non liberista, forse per avvicinare il pensiero alla tesi e agli atti economici del governo Prodi. Intini dovrebbe sapere che proprio sulla connessione liberalismo-liberismo Einaudi ebbe una polemica vivace con Croce, che sosteneva, comè noto, il contrario. Certo, a Einaudi non si può attribuire un liberismo estremista, come del resto una concezione simile non appartiene a nessun liberale vero.
Einaudi credeva lucidamente e razionalmente nella libera iniziativa, nel libero mercato, fino, ad esempio, ad accusare la borghesia dessere (testuale) «assente, pavida, vile», perché cerano industriali e agricoltori che contraddittoriamente e incoerentemente chiedevano protezione allo Stato. Il suo liberal-liberismo era una scelta ragionata, maturata. Se ne trova testimonianza nei suoi scritti, soprattutto nelle Lezioni di politica sociale, impartite in Svizzera, e nello Scrittoio del Presidente, che raccoglie scritti che lo rivelano grande economista e statista oltre che scrittore, come lo definì Federico Caffè, «che sapeva comunicare nelle forme più accessibili al comune lettore».
Francamente, non vedo come lamico Intini possa sostenere una tesi tanto peregrina. Ne vuole una smentita? Cerchi, nello Scrittoio del Presidente lo scritto che Einaudi, quandera al Quirinale, dedicò a Giorgio La Pira, che aveva pubblicato un articolo intitolato Difesa della povera gente. La Pira sosteneva stravaganti tesi solidaristiche e Einaudi gli si rivolse con una cortese ma ferrea contestazione, in cui faceva notare come quelle tesi lapiriane mutuate dai «dettami evangelici» e dai «santi padri» (sic) fossero non solo «incerte» ma sapevano addirittura di «contaminazione» perché era assai difficile vedere legami «fra i precetti evangelici e le regole della vita economica» (va annotato, per inciso, che Einaudi era cattolico).
È una pagina quella dello «Scrittoio del Presidente» davvero straordinaria, nella quale, con la chiarezza esemplare che non si riscontra in nessun altro economista, Einaudi cerca di spiegare a La Pira le regole e la logica delleconomia. «Parrebbe a leggerla - scriveva il presidente - che coloro che posseggono le leve delleconomia, della finanza e della politica debbano adempiere a un solo ufficio: dare a tutti il lavoro e il cibo...
Lezione impareggiabile, che andrebbe letta nelle scuole. E mi fermo qui. Le altre considerazioni di Intini nella lettera al Corriere non mi appare centrino molto col pensiero di Einaudi.
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