Elogio della bottiglia

La plastica e tutti i prodotti "usa e getta": prima del virus erano il grande nemico degli ecologisti, da mettere subito all'indice. Covid19 ha cambiato le cose. Ma per l'ambiente non sarà una tragedia

Elogio della bottiglia

Mi fai dare un sorso? Chissà per quanto tempo questa espressione andrà in disuso. In epoca di virus, la borraccia colorata, in alluminio e con design accattivante, ha fatto appena in tempo a diventare accessorio di moda e già rischia il declino. Il concetto stesso di usa-e-getta, ora sinonimo del demonio in tempi di plastic free, pare improvvisamente rivalutato. Chi si sognerebbe di sconsigliare il continuo ricambio di mascherine imposto dal rischio epidemia? Starbucks, per dire, ancor prima che gli Stati Uniti realizzassero il vero rischio di contagio, ha temporaneamente sospeso in Nord America l'utilizzo delle tazze personali, che comportavano per il cliente uno sconto di 10 centesimi sulle bevande. La promozione era partita nel 2010 per ridurre il consumo di bicchieri di carta usa-e-getta. Per non rinunciare del tutto all'effetto di marketing «green», la grande catena di caffetterie ha avviato una nuova iniziativa che ha del paradossale: lo sconto sarà ancora applicato presentando alla cassa la propria tazza, ma il caffè o il the saranno serviti in contenitori monouso. La tazza anti spreco, come la borraccia, trasformati in mera icona ecologica, ma espropriata di qualunque finalità pratica.

La bottiglietta di plastica, in era pre-virus, era sotto attacco, quasi messa all'indice. Bandita da scuole, università e perfino treni. L'emergenza ha frenato il fenomeno. Ikea ad esempio, ha ripristinato la vendita di minerale in bottiglia nei suoi punti vendita. E le vendite nei supermercati hanno ripreso quota: nei giorni del panico si sono visti carrelli stracolmi di pacchi da sei. L'impatto sull'ambiente è da valutare, ma l'aver rallentato il processo di sostituzione della plastica potrebbe rivelarsi un bene, perché la sacrosanta lotta all'inquinamento dei mari aveva assunto toni da crociata tali da spingerci a soluzioni estreme, senza considerare a fondo pro e contro.

Niente di nuovo: nella società dei consumi a volte ci vuole un evento estremo per deviare la traiettoria illogica impressa dal marketing. Basta pensare all'ascesa della bottiglietta. Il National Geographic ha studiato la curva della diffusione dell'acqua minerale senza riuscire a determinarne il punto zero, il momento in cui girare con un mezzo litro nella borsa è diventato trendy, ma ha richiamato le prime apparizioni di modelle «bevitrici» alle sfilate di moda, mentre la pubblicità dell'epoca suggeriva l'acqua minerale come bevanda miracolosa. Era la fine degli anni 80. Tra il 1994 e il 2017, la vendita di acqua negli Stati Uniti è esplosa del 284 per cento. I grandi marchi si sono gettati a pesce sul nuovo mercato. PepsiCo con il marchio Aquafina e Coca Cola company con Dasani, poi hanno comprato marchi in tutto il mondo. «Il nostro mercato è completamente diverso -spiega Ettore Fortuna, presidente di Mineracqua, che rappresenta le 125 aziende italiane del settore- i grandi marchi vendono soprattutto bottled water, termine che indica acqua corrente filtrata per garantirne la sicurezza alimentare. Un trattamento che però la impoverisce. Noi e i tedeschi abbiamo invece tante fonti di acqua minerale e noi italiani abbiamo la migliore tecnologia per imbottigliarla: è un prodotto al cui gusto la gente si affeziona. Tanto da vedere mamme che riempiono la borraccia dei figli con l'acqua minerale».

L'Italia oltre a essere un grande esportatore di acque minerali (in oltre 100 Paesi, per un giro d'affari di quasi 3 miliardi e 40mila occupati, includendo l'indotto) è anche un forte produttore di plastiche: tremila aziende, per un fatturato di 12 miliardi in continua crescita. Dunque dobbiamo rassegnarci? La lotta per ridurre il consumo di plastica contrasta con i nostri interessi nazionali? Non è del tutto vero. Purché si affronti seriamente la questione, anziché affidarsi a slogan e inseguire una moda «verde» di facciata come ha fatto il governo con la «plastic tax». O acquistando prodotti green tipo le posate di bambù: sono rivestite di una resina plastica che le rende non riciclabili, denuncia Altroconsumo.

«Bisogna innanzitutto spiegare che la plastica non è una sola -spiega paziente Antonello Ciotti, presidente del Corepla, il consorzio che fa la raccolta differenziata della plastica- esistono sette polimeri principali, combinandoli si ottengono le varie tipologie». L'unione con materiali diversi può rendere la plastica meno «pura» e quindi meno riciclabile. Nel 1973 Nathaniel Wyeth, scienziato che lavorava per il colosso americano della chimica DuPont, brevettò la prima bottiglia di Pet, una super plastica leggera, resistente, sicura per la salute e poco costosa: e fu la fortuna del mezzo litro «portatile». Il Pet in più è riciclabile al cento per cento: con una bottiglietta, se non è del tipo colorato, se ne produce un'altra. Oppure si usa nel tessile per produrre il pile. Eppure il governo l'ha incluso fra i materiali sottoposti alla plastic tax.

L'accusa mossa da associazioni ambientaliste e politici parte da una constatazione: di Pet è pieno il mare. Anche se non quanto raccontano certi dati distorti: a giugno dell'anno scorso il Wwf ha diffuso un report che denunciava la dispersione nel Mediterraneo di 570mila tonnellate di materiali plastici. «Come se venissero gettate 33.800 bottiglie al minuto». Titolo di un grande giornale italiano: «Gettate in mare 34mila bottigliette di plastica al minuto». Ma il Wwf usava la bottiglia come termine di paragone. Il Pet è un materiale talmente straordinario e riciclabile che negli Stati Uniti è nata un'iniziativa ambientalista, Parley for the Oceans, che si dedica a raccogliere le bottigliette disperse in mare in partnership con Adidas: bastano sette contenitori di Pet a ottenere il filato necessario a fare una maglia in tessuto tecnico. Tasso di riciclo dopo un soggiorno in fondo al mare: 94 per cento.

Non è la resa all'inevitabilità dell'inquinamento. Le possibilità non mancano a partire dalla riduzione del materiale utilizzato grazie alla tecnologia. «Le nostre aziende lavorano continuamente alla riduzione del peso dei contenitori -spiega Angelo Bonsignori, direttore generale della Federazione gomma plastica- le bottigliette rispetto a 20 anni fa sono più leggere del 38 per cento, i tappi del 42 per cento». Il problema è la raccolta: dovrebbe diventare più efficiente, quanto basta a convincere anche i maleducati a smaltire correttamente la bottiglia. Non è impossibile: la Norvegia è arrivata al 97 per cento di riciclo, solo l'un per cento finisce nell'ambiente. Diversi Paesi destinano una parte della plastica alla termovalorizzazione, producendo energia. Ma in Italia un terzo finisce in discarica, anche perché di termovalorizzatori da Acerra in giù non ce ne sono.

Il paradosso italiano inoltre, è che noi importiamo bottiglie di Pet da riciclare, perché non ne raccogliamo abbastanza. «Il sistema del deposito con reso, quello che si usava una volta con le acque minerali ha dato ottimi risultati -spiega Ciotti- ma le norme vanno pensate bene, coinvolgendo la grande distribuzione». Il riferimento di Ciotti è a quello che è successo in Germania: c'era chi portava dalla Polonia interi sacchi di plastica per riscuotere il costo del deposito.

«E l'Unione europea -aggiunge- ha appena sbagliato la direttiva con cui si impone che le bottiglie contengano almeno il 25 per cento di Pet riciclato. Non hanno specificato che debba provenire dall'Europa. Il risultato? Importiamo bottiglie da riciclare da India, Marocco, Egitto perché costano meno».

Giuseppe Marino

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