All'inizio del Seicento, quando il regno di Enrico IV di Francia stava per finire, i morti per duello oscillavano fra i 2mila e i 4mila l'anno. L'aristocrazia si dissanguava, ma così facendo toglieva sangue e forze alla corona che ne avrebbe più volentieri accettato lo spargimento, quando necessario, sui campi di battaglia. Lì dove Enrico IV, re cavaliere per eccellenza, così come prima di lui lo era stato Francesco I, a questa ecatombe non riusciva a opporsi, perché il suo carattere finiva troppo spesso con il graziare chi duellando aveva infranto le leggi regali che lo proibivano, il suo successore Luigi XIII, dietro consiglio del cardinale Richelieu, decise di porre un più energico freno, equiparando il duello a un crimine di lesa Maestà: la Guerra dei trent'anni era alle porte e non si poteva più accettare che ci si sbudellasse dietro qualche convento dei Carmelitani scalzi, quelli dei Tre moschettieri, per intenderci...
Il delitto di lesa Maestà si rivelò però un'arma, è il caso di dire, a doppio taglio. Più l'assolutismo regio imponeva il suo dominio sulla nobiltà di spada, limitandola nei privilegi e contaminandola con una nobiltà di corte o di roba, che vedeva il primo affacciarsi al potere della classe borghese, più quella stessa vedeva dietro la questione d'onore un altro modo, se non l'unico, per opporsi al suo ridimensionamento: farsi giustizia nel proprio nome, insomma, era proprio di chi non aveva rinunciato all'idea di essere pari al re...
Lungo le sale del Musée de l'Armée, la mostra Duel. L'art du combat (fino al 18 agosto) illustra bene quanto appena detto, l'esposizione di editti reali, di disegni e quadri, sciabole e pistole a volontà, trattati di scherma e minuziose codificazioni della pratica stessa del duello perché, come ogni violenza ritualizzata, nulla era da essa più lontana dell'improvvisazione. E quindi, scambi dei cartelli di sfida, scelta dei testimoni, delle armi, del luogo, vestizione, meglio svestizione dei duellanti: in camicia e pronti per l'assalto, affinché nessuna protezione in forma di cotta di metallo potesse essere nascosta. Era un modo come un altro per rivestire di solennità una giustizia privata, e dunque un regolamento di conti personale, e un modo come un altro per riempiere i vuoti di quello che a tutti gli effetti restava un tribunale clandestino
Chi a Versailles si illudeva che la partita fra assolutismo e aristocrazia si sarebbe conclusa con la definitiva normalizzazione della seconda e quindi con la pratica del duello divenuta sempre più un fenomeno marginale, si ritrovò a fine Settecento con la sorpresa della Rivoluzione dell'89, che, se in nome dell'eguaglianza, da un alto tagliò sì la testa fino ad allora divina dell'ultimo monarca fino allora regnante, Luigi XVI, dall'altro, e per la stessa logica egualitaria, trasformò quello che era un privilegio aristocratico in pratica comune. In sostanza, l'onore non era più l'appannaggio di una classe, ma un sentimento condiviso, interclassista. La patria in pericolo e in armi prima, le guerre napoleoniche poi, impregnarono di violenza la società civile e a Parigi, come in provincia, non importa chi prese a battersi per non importa cosa: un piede schiacciato con malagrazia, un'amante che non si voleva più condividere, un'allusione calunniosa su un giornale, una chiacchiera da caffè D'altronde, proprio la Rivoluzione aveva dato la stura ai figli di contadini o di tavernieri che da soldati divenivano in un pugno d'anni generali e questa pratica divenne poi una costante del bonapartismo. In quel superbo racconto di Joseph Conrad che è Il duello (reso poi benissimo da Ridley Scotto nel film I duellanti), il tenente degli usseri, al termine della sua carriera generale, Feraud, che incrocerà per quasi un ventennio la sua lama o la canna della sua pistola con quelle del parigrado, anche lui via via promosso, d'Hubert, è figlio di un fabbro, laddove la particule del secondo ne sottolinea l'estrazione aristocratica: nell'Ancien Régime, quest'ultimo si sarebbe limitato a farlo bastonare dai suoi servitori, ma nel Nuovo Mondo non è più possibile
Il racconto di Conrad è tanto più interessante perché se da un lato in esso si sottolinea come «un duello, lo si consideri una cerimonia del culto dell'onore o lo si riduca nella sua essenza morale a una forma di gioco virile, richiede una perfetta unicità d'intenzione, un'austerità omicida», il che fa dei suoi protagonisti «due imperturbabili bonzi della religione della spada», dall'altro ha a che fare con la stessa biografia di Conrad che, non va dimenticato, era polacco Nella sua giovinezza, quando ancora si chiamava Korzeniowski ed era un nobile esule di nemmeno vent'anni che voleva evitare la leve obbligatoria russa che gli avrebbe imposto venticinque anni nell'esercito dello zar, c'è un duello, di cui resteranno i segni al petto e al fianco, dove la pallottola era fuoriuscita. A detta dello stesso Conrad, era dovuto al tradimento di una causa, quella carlista, tradimento che aveva provocato l'affondamento volontario del veliero che contrabbandava armi per riportare in Ispagna la monarchia, e ai successivi sospetti, rancori, maldicenze da lavare con il sangue perché, appunto, ne andava del suo onore Conrad, insomma, sapeva quali psicologie avesse di fronte, perché erano state le sue, indipendentemente o meno di quanto, razionalmente, il concetto di duello gli potesse sembrare anacronistico se non insensato.
È un peccato che, in quanto gallo-centrica, l'esposizione non si apra ad altri Paesi, per esempio a quella Russia che allora schiacciava la Polonia del giovane Conrad: da Puskin a Lermontov, le biografie dei suoi scrittori si intrecciano con i duelli di cui non solo scrivono, ma di cui restano addirittura vittime... Quanto all'Italia, vale la pena ricordare la famosa Disfida di Barletta, che è del 1503 e vede tredici cavalieri italiani guidati da Ettore Fieramosca scontrarsi vittoriosamente, in campo delimitato e con tanto di giudici, con tredici cavalieri francesi
Divisa in sezioni, la mostra getta comunque uno sguardo, anche se frettoloso, su tutto ciò che nella storia c'era stato prima che il duello arrivasse a quella ritualizzazione prima raccontata. Il dipinto di Rubens, Achille vincitore di Ettore, ci ricorda che, già a partire dall'Iliade, il combattimento a due è una sorta di epitome della guerra stessa, così come nell'Europa feudale l'ordalia, ovvero la prova cui ci si sottometteva in nome della giustizia divina, lentamente glissa verso il combattimento a due dove, anche lì, chi vince non è il più forte, ma il più giusto, la sconfitta come verdetto di colpevolezza per volontà trascendente.
All'ordalia metterà un freno la Chiesa, per evitare che il giudizio di Dio divenisse un ripiego, così come alla sua deriva laica in forma di combattimento sarà la monarchia centralizzatrice a mettervi fine, perché altrimenti significava ammettere l'incapacità di giudici e tribunali. Sotto questo aspetto, il duello, nel 1386, dei cavalieri Jean de Carrouges e Jacques Le Gris (anche questo portato sullo schermo da Ridley Scotto con il suo L'ultimo duello), segna il declino di quel modello decisionale
Oggi il termine duello, come la mostra mette in evidenza in una sezione apposita, è soprattutto legato ad avvenimenti sportivi, e le prossime Olimpiadi di Parigi hanno avuto un loro peso nel progetto della mostra stessa.
La scoppola elettorale alle europee del presidente della Repubblica Macron, ha tuttavia riportato agli onori della cronaca il duello politico, come le elezioni anticipate indette dallo stesso Macron sembrano indicare. L'impressione è che quest'ultimo tenda sempre più a somigliare alla figura di Kagemusha, protagonist del bel film di Akira Kurosawa: un finto samurai che si prende per vero
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