Lollo per tutti e di nessuno. È stata la cosa più bella che il dopoguerra ha regalato all'Italia

Esprimeva coraggio e voglia di rinascita rubando la scena ai divi hollywoodiani. Da "La romana" a "Un bellissimo novembre": tante donne restando se stessa

Lollo per tutti e di nessuno. È stata la cosa più bella che il dopoguerra ha regalato all'Italia

La Bersagliera, La Donna più bella del mondo, La Zingara, La Venere imperiale, La Romana, La Maggiorata, La Lollo, semplicemente... Poche attrici come Gina Lollobrigida hanno saputo incarnare sé stesse con un nome, un soprannome, un'immagine e un'interpretazione. Per molti versi, quello che è stato il tramonto di un'esistenza tanto lunga quanto prestigiosa, è iscritto in un'alba che fu insieme nazionale e popolare: alle ultime elezioni politiche si era infatti candidata per una lista, Italia sovrana e popolare, che riuniva in sé sigle eterogenee come Partito comunista, Patria socialista, Azione civile, Ancora Italia, Riconquistare l'Italia...

Gina Lollobrigida, morta ieri a 95 anni, non era solo bellissima, e il fatto che, ventenne, arrivasse terza al concorso di Missa Italia, dopo Lucia Bosè e Grazia Maria Canale, aiuta a spiegare che cosa fosse l'Italia della ricostruzione post bellica, povera, ma bella, vogliosa di ricominciare, fiera di sé stessa e proiettata verso il futuro, provinciale e insieme internazionale, come è proprio di chi non ha paura di niente e di nessuno. Era anche brava, la Lollo, sapeva recitare, non aveva timore della concorrenza, tanto meno di quella maschile. In Fanfan la Tulipe rubava la scena a Gérard Philipe, in Le bambole a Jean Sorel; i divi hollywoodiani, si chiamassero Rock Hudson o Burt Lancaster, non la impressionarono mai; era a suo agio con Vittorio De Sica e un po' tutta l'aristocrazia del cinema d'arte e popolare degli anni Cinquanta e Sessanta, da Andrea Checchi a Gabriele Ferzetti, sul versante attoriale, da Comencini a Blasetti, a Monicelli, a Steno e Soldati per restare in quello registico.

Quando a metà degli anni Settanta decise di dire no al cinema, proseguì una carriera di fotografa e di scultrice che ebbe una sua dignità e che si accompagnava a una personalità esuberante, ma mai fuori le righe, consapevole di sé stessa senza però metterla giù troppo dura. I suoi ultimi anni sono stati purtroppo oggetto di battaglie economico-legali, che da un lato ne appannavano l'immagine, dall'altro però ne rivelavano il carattere indomito, mai portato a compromessi, sempre pronto a infiammarsi, ad ammettere gli errori, a ripartire.

Attrice portata più alla commedia che alla tragedia, la Lollobrigida non ha però mai sfigurato quando è stata chiamata a interpretare ruoli drammatici. Era una finta popolana, nata in una famiglia borghese, studi liceali alle spalle, e questo le ha permesso di essere credibile in quei ruoli, tratti dai romanzi di Alberto Moravia, La romana, La provinciale, o di Ercole Patti, Un bellissimo novembre, dove veniva raccontato il cammino femminile piccolo o medio borghese che conduce dalle pene d'amore al tradimento o alla prostituzione, secondo un cliché tanto romanzesco quanto cinematografico dove la bellezza era una colpa più che una risorsa e la risciacquatura freudiana dei conflitti etico-sessuali un modo come un altro per non interrogarsi sui mutamenti reali del Paese.

È probabile che a un ragazzo d'oggi, il suo nome dica poco o niente, e del resto l'Italia è una nazione che ha scarsa memoria di sé. Ma per tutti gli anni Cinquanta, che poi sono gli anni che coincidono con la sua giovinezza e il suo successo internazionale, Gina Lollobrigida fu un po' la nostra ambasciatrice nel mondo, seducente e allegra, ribelle e coscienziosa, diva, ma senza troppi birignao. Era spiritosa, sapeva ridere e far ridere. I giornali costruirono intorno a lei e a Sophia Loren, che aveva un pugno d'anni di meno, sette per l'esattezza, una rivalità che aveva un suo fondamento, belle e brave entrambe, nonché tipicamente italiane, ma che per il resto era frutto dei magheggi degli uffici di produzione e di una stampa in cerca di effetti e di sensazioni.

L'interpretazione della Fata Turchina nel Pinocchio televisivo di Luigi Comencini, nel 1975, segnò in fondo il suo addio alle scene, a sé stessa, a una certa idea dell'Italia. Apparteneva a un'epoca che la contestazione sociale e dei costumi e l'incanaglirsi della lotta politica, gli «anni di piombo», relegavano di colpo nelle buone cose di pessimo gusto e la favola nazionale incarnata nel burattino di legno di Collodi era sì opera di alto artigianato, ma si rilevava reliquia di un Paese scomparso e che non sarebbe più tornato. I figli si ribellavano ai padri, i padri non sapevano più insegnare ai figli, per le donne, fossero mogli, madri o sorelle, c'era la pillola, c'era l'aborto, c'era il divorzio...

Arrivavano le fate ignoranti e con loro la confusione dei sessi e dei codici valoriali. La Lollo ignorante non era mai stata e sui sessi aveva sempre avuto le idee chiare. Saggiamente si tirò da parte e fece altro. Senza rimpianti, senza rimorsi.

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