Chi voleva la testa di Assad ora lo considera un amico

Quasi tutti i leader occidentali progettavano di eliminarlo. Poi hanno scoperto che non è così male. Ma soprattutto che i ribelli sono peggio

Chi voleva la testa di Assad ora lo considera un amico

Che fine hanno fatto le perentorie richieste di quasi tutti i leader occidentali per la rimozione di Bashar El Assad dalla presidenza della Siria? Come mai i vari Obama, Hollande, Cameron, che fino a poco tempo fa apparivano decisi a contribuire all'abbattimento del dittatore e volevano bombardare le sue basi militari per punirlo dell'uso di armi chimiche contro la popolazione sono oggi pronti a trattare con lui per una soluzione politica della guerra civile, che, come ha detto il Segretario di Stato Kerry, «preservi le istituzioni dello Stato»? La risposta è semplice: nelle ultime settimane la situazione in Siria è cambiata e le parti si sono, in un certo senso, invertite: accettando la distruzione del suo arsenale di armi chimiche e mantenendo poi puntualmente gli impegni assunti - al punto di meritarsi un pubblico elogio da parte dello stesso Kerry - Assad è diventato un partner affidabile. I ribelli, invece, hanno compiuto il percorso inverso: l'ala moderata, su cui l'Occidente puntava, ha perso costantemente terreno rispetto alle due organizzazioni jihadiste legate ad Al Qaeda che vogliono instaurare un regime basato sulla Sharia e continuano a macchiarsi di crimini che non hanno nulla da invidiare a quelli commessi dal regime. Questi estremisti islamici sono meglio organizzati, meglio armati e meglio finanziati (dai Paesi arabi sunniti del Golfo) dei «laici», possono contare su almeno 5.000 fanatici volontari stranieri accorsi da mezzo mondo e sono ormai i veri padroni delle province sottratte alle truppe di Assad. La prospettiva di un loro successo, che comporterebbe anche la sistematica persecuzione delle minoranze cristiane, curde e druse schierate col regime, spaventa le Cancellerie quasi più di un ritorno dei Talebani in Afghanistan. Perfino il premier turco Erdogan, che era stato tra i primi a chiedere la testa di Assad e a fornire pieno appoggio ai ribelli, sembra ora avere dei ripensamenti, al punto da ordinare il bombardamento di una loro base a ridosso della frontiera.

É mutato anche l'atteggiamento della stampa. Mentre, fino a poco tempo fa, gli inviati dei giornali occidentali preferivano lavorare nelle zone controllate dai rivoltosi e raccontare la loro versione dei fatti, dopo una serie di rapimenti (tra cui quello del nostro Domenico Quirico) e la scomparsa di ben sedici giornalisti sono tornati in massa a operare da Damasco, dove il regime ha allentato i controlli. Lo stesso Assad ha dato una serie di interviste a televisioni e giornali europei ed americani, cercando di presentare un volto moderato e dipingere i ribelli come pericolosi terroristi. Questa svolta, iniziata quando la Russia ha convinto Obama a rinunciare al bombardamento punitivo del regime in cambio della distruzione delle sue armi chimiche, influenzerà in modo decisivo anche la conferenza di pace che dovrebbe svolgersi - sotto l'egida congiunta di Washington e Mosca - a Ginevra il 23 e 24 novembre. Da un lato ci sarà un Assad praticamente inamovibile fino a quando non avrà mantenuto fino in fondo i suoi impegni, dall'altra potrebbe esserci soltanto Ahmad al Jarba, presidente della coalizione moderata che è appena stata abbandonata da dodici delle quindici organizzazioni che ne facevano parte, passate armi e bagagli con i jihadisti e che perciò non rappresenta virtualmente nessuno. La presenza di Al Nusrah e di Al Qaeda in Siria ed Iraq (che punta a costituire, a cavallo tra i due Paesi, il califfato che sognava Bin Laden) è esclusa in partenza.

Nonostante i crimini commessi e i centomila morti della guerra civile, Assad, in controllo ancora di almeno la metà del Paese, ha così buone probabilità di diventare l'unico dittatore a sopravvivere alla «primavera araba».

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